Avevo otto anni vivevo in quel periodo a Guardia Sanframondi e nella mia mente è rimasto indelebile un ricordo:
“…mio padre Nicola Rinaldi, allora dirigente del locale Banco di Napoli e Arbitro di calcio, mi dice: Preparati che dobbiamo andare a messa per un grave lutto dello Sport Italiano, mi preparo e dando a lui la mano mi recai, con una folla immensa, in Chiesa a rendere omaggio a coloro che solo qualche anno dopo capii esattamente che Campioni fossero e quale grande perdita aveva subito lo Sport e il Calcio Italiano e non solo.
Ancora oggi mi ritorna in mente quel giorno e così come allora rivolgo la mia preghiera per i campioni del Grande Torino.
Renato Rinaldi
4 maggio 1949: La strage su Superga
Torino 4 maggio 1949 notte – nebbia, pioggia, vento, silenzio laddove 6 ore fa si è sfracellato l’aeroplano che riportava a Torino la più bella squadra di calcio d’Italia. Un pallido, rossastro riverbero illumina ancora palpitando le muraglie della Basilica di Superga. Un pneumatico dell’apparecchio sta ancora bruciando, ma la fiamma cede, tra poco sarà completamente buio. Lo spaventoso disastro è successo alle 17:05. Superga era avvolta in una fitta nebbia. A 30 metri non si vedeva niente. Nella sua stanza al primo piano della basilica il cappellano del tempio, prof. Don Tancredi Ricca stava leggendo.
La pioggia, una impetuosa pioggia quasi da temporale scintillava scrosciano contro i vetri. Dal silenzio usciva poco a poco un rombo. Un aeroplano, pensò don Ricca. Ma ne passano tanti di aeroplani, un traguardo fra gli aviatori in arrivo. Prima di scendere al campo aeronautica d’Italia i piloti usano fare un picco sopra la Basilica, un ultimo giro.
Niente di strano, dunque … Non è vero! Non è vero! Alcune ore sono passate prima che i torinesi, diciamo gli italiani, uscissero a conoscere nella sua selvaggia crudeltà questa sciagura.
Pare che pochi minuti prima della tragedia il marconista del campo di Torino in collegamento radio col collega a bordo dell’apparecchio ha scambiato con lui brevi messaggi. L’aereo – un 212 Fiat trimotore – gli avrebbe richiesto l’orientamento comunicando di trovarsi in mezzo a una formazione temporalesca a 2000 metri di quota. Poco dopo l’aeroplano si frantumava contro il pianterreno di Superga.
Possibile che in così breve tempo, tenendo conto della visibilità che avrebbe dovuto consigliare prudenza, l’aereo fosse disceso di quasi 1300 metri? E’ sorto così il dubbio che l’altimetro si sia bloccato e che quindi il pilota, convinto di essere sempre a una quota notevole, non dubitasse minimamente del tremendo pericolo a cui andava incontro. C’è qualcuno che assicura di aver rintracciato il cruscotto e visto il quadrante dell’altimetro. Secondo questa testimonianza non ancora controllabile, la lancetta è ferma e punta a quota 2000. Se ciò fosse vero, sarebbe trovato il motivo principale del disastro.
Ore 17:03 ultimo messaggio:
“Ok. Arriviamo”.
Ore 16:45, campo di volo dell’Aeronautica. La pioggia che ha provocato danni in tutto il Piemonte scende con raffiche violente, le nubi incombono basse, cupe. Nella cabina della stazione radio un silenzio angosciato: si aspettano messaggi da parte dell’aereo del Torino atteso per le 17:00. Finalmente un tichettio dell’apparecchio. Il tasto batte: “Siamo sopra Savona. Voliamo di sotto delle nubi, 2000 metri, fra 20 minuti saremo a Torino”. La notizia giunge al bar vicino, dove tutti brindano. Il tasto riprende a battere: “__.__..__” VUole il rilevamento radiogonometrico. E’ un’operazione semplice. Piton ci mette pochi secondi “QSM 280°”.
Alle 17:02 la richiesta del bollettino metereologico: “Nebulosità intensa, raffiche di pioggia, visibilità scarsa, nubi 500 metri”.
Ore 17:03. L’aereo trasmette: “Ricevuto, sta bene, grazie mille”.
La squadra
Nessuna squadra al mondo ha mai rappresentato per il calcio tutto ciò che è riuscito al Grande Torino.
L’Italia in quegli anni era reduce da una guerra perduta, avevamo poca credibilità internazionale e furono le gesta dei nostri campioni a rimetterci all’onore del mondo: Bartali, Coppi, il discobolo Consolini, le macchine della Ferrari e appunto il Grande Torino che, essendo una squadra, dimostrava a tutti come un popolo di individualisti come gli italiani sapessero far fronte comune per dare vita al più bel complesso di calcio mai visto e mai più comparso su un campo di calcio.
La Juventus del Qinquennio, il Real Madrid, il Santos, la Honved, l’Inter di Herrera, l’Ajax e il Milan degli olandesi hanno rappresentato, è vero, eventi tecnici straordinari, ma nessuno ha pareggiato il Grande Torino.
I granata, guidati da Valentino Mazzola, il capitano dei capitani, hanno record strabilianti e assolutamente irripetibili. Bastava, per esempio, uno squillo del trombettiere del Filadelfia perchè si scatenassero. Leggendaria, per esempio, una partita romana quando il Grande Torino, in svantaggio di un gol nel primo tempo contro i giallorossi, stabili negli spogliatoi, durante il riposo, che non si doveva più scherzare. Fu così che vennero segnati 7 gol a dimostrazione che quella squadra vinceva come e quando voleva.
Non per nulla l’11 maggio del 1947, Vittorio Pozzo, il commissario tecnico della Nazionale, vestì dieci granata d’azzurro per una partita disputata a Torino contro l’Ungheria.
I nostri eroi naturalmente vinsero. E avrebbero continuato a vincere su tutti i fronti se non fosse sceso in campo il destino più tragico per fermarli. Ma non per batterli. Perchè quella squadra di grandi uomini e di grandi campioni è passata direttamente alla leggenda.
I campionissimi uno per uno
Oltre ai giocatori sono periti nella strage anche i giornalisti, dirigenti e tecnici.
Giornalisti
Renato Casalbore
Aveva 57 anni, e dal 1913 viveva per Io sport, giusto allora essendo entrato quale direttore sportivo alla Gazzetta del Popolo di Torino. Critico equilibrato, dalla prosa garbata, dallo spunto signorile, era competentissimo in ogni ramo di sport: ma sovra tutti prediligeva il calcio che egli stesso aveva intensamente praticato negli anni giovanili. Sempre rimasto allo stesso giornale. Se ne staccava solo nel 1941 quando fondava Tuttosport assumendone la direzione e portandolo presto ad un posto di avanguardia per esattezza di cronache, per spirito d’iniziativa, per tempestività di critica. Era sposato ed aveva una bambina
Luigi Cavallero
Capo dei servizi sportivi del quotidiano «La Stampa» di Torino, Cavallero aveva 42 anni. Veniva, giornalisticamente, dalla gavetta, poichè aveva cominciato – attorno al 1925 – a collaborare con qualche pezzo ai giornali sportivi di allora, ancora non pensando di poter fare del giornalismo sportivo la fonte della sua vita. Nel 1926 passava redattore a «Il Paese Sportivo», collaborava quindi con assiduità al «Guerin Sportivo» e nel 1929 era assunto da «La Stampa». Era ammogliato e padre di tre figli.
Renato Tosatti
Sempre allegro e sempre indaffarato, lavoratore instancabile, sentiva la sua responsabilità di marito e padre di tre figIi degnamente crescere. Contava quarantanni, Genovese, aveva cominciato a farsi conoscere con talune sue corrispondenze al «Guerin Sportivo», da lui argutamente firmate con lo pseudonimo di «Totò»: al «Guerino» collaborava tuttora, così come collaborava a «Tuttosport» con la firma di «Kid». Ed era ora ai servizi sportivi di «Gazzetta del Popolo» e di «Gazzetta Sera». Aveva seguito il «Torino» a Lisbona desideroso di prendersi una breve licenza.
Dirigenti
Agnisetta
«Gli occhi non rimangono asciutti se penso ad Agnisetta, sportivo di gran razza; quando era alla Lega Regionale e talvolta gli andavo a chiedere qualche giusta provvidenza per certe squadre di provincia, andava di persona a vedere, si metteva in quattro, rendeva giustizia o soccorreva i bisognosi senza far strappi alla legalità, perchè aveva cuore, ma per tutti, ed era uomo d’ordine, e amava le cose giuste…».
Questo quanto ha scritto «Carlin» per il rag. Rinaldo Agnisetta. direttore generale del «Torino». Rinaldo Agnisetta era tra le più conosciute ed apprezzate figure di quella sportivissirna Torino che tanti autorevoli uomini di sport può vantare. Contava 56 anni, e da almeno quaranta primavere si dedicava allo sport, spesso assumendone ruoli di estrema responsabilità. Cosi come quando, agendo con suprema energia, si era trovato a sanare una dura crisi economica del «Torino» stesso. Ebbe allora tatto e tenacia, fermezza e intelligenza; mostrò nella contingenza virtù straordinarie di risanatore e seppe vincere.
Per il «Torino» la perdita di Agnisetta è una perdita irreparabile; il sodalizio granata gli doveva molto… e lui ha voluto andarsene, col suo «Torino», nel momento in cui Ia società alla quale tanti tesori di energia e di intelligenza egli aveva dedicato, aveva raggiunto il massimo fulgore.
Non sembrerà vero, quando il «Torino» avrà saputo superare anche il durissirno colpo odierno, che alla immancabile rinascita non abbia potuto contribuire anche Rinaldo Agnisetta.
Civalleri
Ippolito Civalleri, «Civa» come lo chiamavano affettuosamente, negli ambienti del «Torino», ha lasciato pure lui, per sempre, Ia società granata. Era l’accompagnatore ideale, capace di rendere tutti di buonumore, ritenendo – davvero non a torto – che le lotte più difficili bisogna saperle vincere avvicinandosi ad esse col sorriso sulle labbra. Era ad un tempo il custode ed il protettore dei suoi giocatori, che particolarmente a lui ubbidivano e di lui temevano Ie sfuriate rarissime… ma che comunque c’erano quando, qualcuno, Ia faceva davvero grossa. Non era più giovane, coi suoi 66 anni; ma lo spirito era quello dei ventanni. Usava dire che i capelli grigi glie Ii aveva fatti venire il «Torino».
Cortina
Insuperabile manipolatore di muscoli, in uno col fisico Ottavio Cortina sapeva curare più volte il morale dei giocatori affidati alle sue cure; di animo buono, generosissimo, gli atleti del «Torino» avevano trovato in iui il loro confessore, quegli che poi – senza darne a vedere – s’interessava per sistemare situazioni, per pianificare eventuali dissidi. Ed oltre a tutto, in sua serietà professionale che lo portò, infine, a divenire massaggiatore ufficiale della stessa squadra nazionale.
I giocatori volevano gran bene a Ottavio Cortina; si fidavano di iui e di quelli ch’egli chiamava i suoi «cinquantun anni di esperienze, spesso dure e molte volte difficili, nella vita e nello sport».
Tecnici
Lievesley
Nato in Inghilterra 37 anni fa, nonostante la giovane età Lievesley era già noto nell’ambiente calcistico di tutto II mondo per le sue rare virtù di allenatore. Fra i tanti scesi l’anno scorso in Italia dall’Inghilterra, Lievesley, forse unico fra tutti, non aveva deluso; una volta ancora, anche in questo delicato settore di direzione, i tecnici del Torino avevano avuto la mano felice. Non era ancora entrato in piena conoscenza con Ia lingua italiana, eppure sapeva egualmente farsi intendere dai giocatori ch’erano alle sue cure. Ed aveva avuto un gran merito, a differenza di altri suoi colleghi britannici: quello, cioè, di non applicare il sistema d’allenamento inglese agli atleti italiani troppo dissimili per temperamento e per le stesse caratteristiche fisiche da quelli inglesi; ma di saper plasmare lo stesso metodo britannico sulle esigenze dei giocatori torinesi.
Cosi gli era stato dato conservare in pieno Ia «forma» dei suoi campioni che pure erano tra quanti sostenevano Ie maggiori fatiche in quanto, a diversità degli altri italiani, non riposavano certo quando il calendario presentava qualche partita internazionale.
Si era trovato bene a Torino, ed in ragione di ciò aveva fatto scendere dall’lnghilterra Ia moglie e la figlia, deciso a restare per Iungo tempo in Italia dove aveva trovato piena cordialità e cornprensione per le sue particolari necessità. Quando dai giornali gli accadeva di leggere un riconoscimento alle sue innegabili qualità, si commuoveva; ritagliava il pezzetto e Io inviava agli altri suoi parenti rimasti in Inghilterra. Si diceva fiero di appartenere al «Torino» e di poter collaborare ai suoi successi.
La particolare sua competenza gIi era riconosciuta negli stessi ambienti del nostro calcio azzurro; ed anche qui, in qualche occasione, era stato richiesto con successo pieno l’apporto della sua competenza indiscutibile.
Erbstein
Egri Erbstein, nato a Budapest cinquant’anni fa, era già noto fra noi Italiani ancor prima che in Italia scendesse in veste di allenatore; egli era, infatti, stato uno dei più valenti giocatori d’Ungheria, e come tale più volte chiamato a vestire la maglia di quella rappresentativa. Cosi, tanti anni fa egli aveva avuto modo di allinearsi di fronte alla nostra nazionale in cavalleresche e combattute contese.
Disporre di Egri Erbstein significava disporre di un elemento sicuro: rapido nei giudizi, ma non mai avventato, serviva particolarmente al «Torino» in occasione dell’ingaggio di nuovi elementi; se si considera quanti ottimi acquisti abbia saputo portare in porto il «Torino» degli ultimi anni, basta tale solo fatto per riconoscere di quale qualità Erbstein poteva disporre e quanto egli potesse rendersi utile alla società che aveva Ia fortuna di ascoltarne i consigli.
Ma Erbstein non si limitava a ciò: vera enciclopedia di competenza calcistica egli era anche capacissimo istruttore. Lo sanno benissimo in Ungheria (ed in parte lo sappiamo anche noi Italiani) quanti giovani campioni sono sorti dalle sue attente cure, che vivevano sotto un alone di paterna severità. E la riconoscenza di questi atleti da lui creati era piena: lo si è visto ai funerali di Torino quando Fabian, venuto da Lucca, si lasciò disperatamente andare sulla bara del suo «maestro».
Vi è da notare un particolare: Egri Erbstein non amava viaggiare in aereo, e ogni volta che si presentava una trasferta del genere diceva che si sarebbe rifiutato energicamente di seguire la squadra. Era stato così anche in occasione dell’ultimo volo…