Le Riflessioni di Maria Pia

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La terribile “colonna infame” del Manzoni, denuncia del degrado giuridico, sociale, politico, economico e religioso del ‘600, narra del processo intentato a Milano, durante la terribile peste del 1630, contro due presunti untori, ritenuti responsabili del contagio pestilenziale tramite misteriose sostanze, in seguito ad un’accusa, infondata, da parte di una popolana, Caterina Rosa.
Il processo, svoltosi storicamente nell’estate del 1630, decretò sia la condanna capitale di due innocenti, Guglielmo Piazza (commissario di sanità) e Gian Giacomo Mora (barbiere), giustiziati con il supplizio della ruota, sia la distruzione della casa-bottega di quest’ultimo. Come monito venne eretta sulle macerie dell’abitazione del Mora la “colonna infame”, che dà il nome alla vicenda/saggio.

Solo nel 1778 la Colonna Infame, ormai divenuta una testimonianza d’infamia non più a carico dei condannati, ma dei giudici che avevano commesso un’enorme ingiustizia, fu abbattuta. Nel Castello Sforzesco di Milano se ne conserva la lapide, che reca una descrizione, in latino seicentesco, delle pene inflitte. Anche Napoli ha avuto la sua “Culonna ‘nfam”, Colonna infame, che nel tempo è diventata anche una bestemmia, posta dinanzi al Tribunale della Vicarìa, il castello Capuano. Essa fu un prezioso lascito della Napoli greco-romana, una piccola colonna di marmo che divenne presto l’incubo di ogni debitore della città. Al tempo dei viceré, coloro che avevano accumulato debiti e non avevano pagato le tasse erano costretti a salire sulla colonna, calarsi le brache e declamare dinanzi al popolo le proprie insolvenze attraverso la formula latina “cedo bonis”, che tradotto vuol dire: rinuncio ai miei beni. Salire sulla “Colonna infame della Vicaria” era tra le più umilianti e infamanti condanne che si potevano subire.
Anche il popolo si lasciava prendere la mano, spesso picchiando il cattivo pagatore, da qui il detto: ‘o sango d’ ‘a culonna. Gli insolventi spesso erano anche immersi nell’acqua o presi a secchiate d’acqua: “fa acqua a tutt’ i’ part'”. Anche la formula “cedo bonis” fu “masticata” linguisticamente dai napoletani e divenne “ a’zita bona”. La colonna napoletana fu rimossa nel 1856 dai Borbone e oggi occupa una sala del Museo della Certosa di San Martino, abbandonata al suo destino e anonima.

Maria Pia Selvaggio