Mulini
La notevole presenza di corsi d’acqua che caratterizza il territorio di Pontelandolfo, favorì lo sviluppo di numerosi mulini idraulici lungo i torrenti Lente e Lenticella, per secoli elementi insostituibili dell’economia delle popolazioni locali.
Circa lo sviluppo dell’attività molitoria nel territorio di Pontelandolfo, analogamente a quanto accadeva in tante altre vallate appenniniche, anche lungo il corso del Lente e del Lenticella con i loro affluenti e canali derivati, sorse, in epoche remote, un gran numero di mulini al servizio di piccoli borghi isolati e dei centri abitati.
A partire dal medioevo i mulini furono punti di riferimento di fondamentale importanza nell’economia locale, destinati alla macinazione del grano, delle castagne, principali prodotti alimentari.
I mulini venivano alimentati da canali deviati dai torrenti per mezzo di parate talvolta sostenute da ponti in pietra. Dopo aver alimentato il mulino, e a macine ferme l’acqua dei canali veniva utilizzata per l’irrigazione dei campi.
Oggi questi antichi mulini ormai in disuso e abbandonati, costituiscono un’interessante ed importante testimonianza delle generazioni passate; innegabili, infatti, sono il loro valore storico, ambientale e paesaggistico che ne impone la conservazione e il recupero nell’ambito di un più complessa strategia di valorizzazione del territorio e dell’identità locale.
La ruota idraulica rappresenta sicuramente uno degli elementi più importanti legati allo sviluppo tecnologico dell’epoca pre-industriale; dispositivo fondamentale per la macinazione meccanica dei cereali.
L’origine di questa invenzione appare ancora incerta, sebbene la sua presenza già documentata nella Cina del I sec. a.C. faccia propendere per una nascita orientale. Nel I sec. d.C. Plinio parla di mulini idraulici in Italia, che si sarebbero poi diffusi in tutto l’Impero. Le testimonianze si rarefanno tra il V e l’VIII sec., forse a causa del regresso economico-tecnico dell’Alto Medioevo, ma tornano a farsi più frequenti a partire dall’VIII sec.. Da quel momento in poi è attestata una crescita ed una diffusione sempre più rapida degli impianti idraulici in tutta Europa.
A Pontelandolfo, come testimonia Daniele Perugini nella sua Monografia di Pontelandolfo del 1878, esistevano undici molini, cinque dei quali a due macine, e tre di questi sulla Sannitica addetti a molire i grani diretti alla Capitale.
Da documenti reperibili nell’archivio storico del comune risulta che nell’anno 1949 esistevano dieci mulini definiti, secondo i parametri di cui alla legge n.857 del 07.11.1949, a bassa macinazione , come da elenco di seguito riportato:
Il mulino è uno stabilimento, dove si macinano il grano e le biade: ve ne sono a vento, ad acqua, a vapore, a corrente elettrica.
Quelli ad acqua funzionano con la forza motrice dell’acqua. Per questo sono ubicati nei pressi di un fiume, dal quale attingono a monte l’acqua necessaria per funzionare.
L’acqua, deviata dal fiume mediante una rudimentale piccola diga, volgarmente chiamata truffa per il modo artificioso con cui viene sottratta al suo naturale scorrimento, si immette in un canale opportunamente scavato: la gora, volgarmente chiamata palata per essere portata al mulino e raccolta in una pescaia: la roggia, volgarmente chiamata vótt’, che confina con la parte posteriore del mulino dov’è situata la stanza che contiene i macchinari, il cui fondo è dotato di una cataratta a saracinesca, la paratoia, per il controllo dell’apertura.
Apposite portelle regolano il flusso dell’acqua sia a livello della diga che della gora e della roggia per contenerne la piena con rischio di smottamento.
Quando nella roggia vi è un sufficiente quantitativo di acqua, si procede a manovrarne l’apertura della saracinesca per farla uscire attraverso la cataratta e stramazzare, mediante una doccia, sulla ruota a pale. Le pale sono situate in un locale sotterraneo, il margone, volgarmente chiamato ma’arón’, sopra il quale si trova la stanza delle macine. Le pale sono fatte in legno di quercia o di olmo, perché questo non infradicia anche se rimane per lungo immerso in acqua, anzi si indurisce di più.
La ruota a pale, sospinta dalla forza motrice dell’acqua, ruota in senso verticale e, tramite un sistema di ingranaggi capace di trasformarlo in senso rotatorio orizzontale, lo trasmette alla coppia di macine di pietra, dette anche palmenti.
Intanto, il cereale depositato nella tramoggia, volgarmente chiamata tr’mmòia, tramite un dosatore molto preciso precipita lentamente nel forame centrale della macina soprastante per immettersi tra questa, che è rotante, e quella sottostante, che è fissa, ed essere macinato e ridotto in farina. Questa fuoriesce dal cassone avvolgente delle macine per finire raccolto nella madia sottostante, volgarmente chiamata facciatóra.
L’acqua risultante dalla macinazione defluisce attraverso lo scarico dello stabilimento per tornare, a valle, nel fiume di provenienza.
Detta acqua, usata nella stagione estiva per scopo irriguo, viene volgarmente chiamata l’acqua ‘rr’ ma’arón’.
Gabriele Palladino