Di padre in padre. La voce ultima di Laura Maria Gabrielleschi

POESIA

Di padre in padre. La voce ultima di Laura Maria Gabrielleschi. Recensione di Giovanna Menegus

Pubblicato su dicembre 4, 2017 da \

Il perno doloroso e il vuoto attorno a cui ruotano le 57 poesie della raccolta Di padre in padre (La Vita Felice, 2016) è quello della figura maschile: la prima, per una donna, una figlia che dal padre è stata abbandonata bambina. Dopo trent’anni, o quaranta, o più, «il passato è inabitabile» – come ricorda una citazione da Lorca in esergo –, «la ferita aperta», e mentre «il dolore sorveglia la stanza» e «il tempo si astiene», il presente viene mancato e manca: quanto si cerca è ora appena «qualcosa che somigli alla vita».

In questi versi la desolazione esistenziale viene detta con accenti spogli ed efficaci («Fingendo i giorni le ore / mi addentro in foreste di frontiere / nulla s’attacca al cuore»; «la notte mi coglie alle spalle / ho freddo / tutto dura poco»). Con una coincidenza qui anche letterale con il Ritratto in piedi di Gianna Manzini. Le ultime righe di Ritratto in piedi, romanzo pubblicato nel 1971 e considerato il capolavoro della scrittrice pistoiese (anche la Gabrielleschi è toscana, lucchese vissuta a lungo a Grosseto), recitano infatti: «Ma, rimasta sola, senza la tua guida, io sbando, finisco col cercare altro, o cerco male. Sola: ho freddo, babbo». E non si può a questo punto non notare un’ulteriore minima coincidenza linguistica, al pari della precedente e di quella geografica magari del tutto casuale ed esterna. Comunque sia: «in piedi», che nel titolo del romanzo allude alla statura morale e umana di un padre anarchico tradito dalla figlia a causa della sua ardua scelta politica e morto poi in solitudine, nei versi appena citati (p. 26) torna attribuito a una figlia tradita dal padre (di cui dalla raccolta si colgono pochi tratti: il bere troppo, mangiare troppo, non sorridere mai…) come segno di una dimensione quotidiana di abbandono e precarietà («a mezzogiorno una pizza / in piedi»).
In versi o in prosa, un percorso e una ricostruzione difficili. L’autrice di Di padre in padre, che ho incontrato per pochi istanti, a proposito del proprio libro si è lasciata sfuggire qualcosa come un “mi è costato moltissimo”. Che è il corrispettivo del celebre incipit di Ritratto in piedi: il cavallo che a Firenze sempre si impunta rifiutandosi di attraversare il ponte Santa Trinita, bloccato di fronte a una a tutti incomprensibile «voragine di solitudine», perché «“Il tempo è un sogno”, specie per un cavallo» (nella sua recensione alla raccolta Angelo Andreotti parla di un «tempo che non passa, […] resta impigliato nel presente in forma di ricordo»).
Tuttavia leggendo queste brevi e talora aforistiche poesie d’amore e assenza e ossessione, il primo riferimento che mi è venuto alla mente non è stato Gianna Manzini, ma le Cento poesie d’amore a Ladyhawke di Michele Mari (Einaudi, 2007). Analoga mi è parsa la ricognizione di una fissazione amorosa, il solitario, insistito colloquio di un io poetico con i suoi fantasmi: l’ombra di un essere amato evocato e inseguito nel tempo e nello spazio attraverso le parole che a tratti lo costringono, lo inchiodano quasi a esistere («Ogni parola che scrivo / appartiene più a te che a me», Gabrielleschi; «Verrà la morte e avrà i miei occhi / ma dentro / ci troverà i tuoi», Mari). Nelle due raccolte anche la durata temporale necessaria perché un legame e un sentimento “normali” diventino mito e leggenda, destino e racconto di una vita (o non vita, vita “in cambio”) pare essere la stessa, quella dei trent’anni: «È l’idea di te che manca / trent’anni di silenzi sono tanti / i passi giovanili finiti / la paura, la delusione, / la ferita aperta / cambiare una vita con un’altra vita», Gabrielleschi; «Se fin dall’inizio mi avessero informato / che dopo più di trent’anni senza aver niente in cambio / ancora ti avrei amata / avrei risposto / “Logico e piano, sir” », Mari.
Nella sua bella prefazione Roberto Pazzi osserva che «lo sforzo più nobile di questa scrittura […] è quello di inseguire la vita che fugge nelle forme amate che si colgono eterne per un attimo soltanto, per subito avvertire che dovremo abbandonarle alla consumazione». Prima e più del tema dell’amore-assenza in senso lato, ciò che trovo notevole in Di padre in padre è la voce segreta che vi risuona, una voce e un grido che aprono a un oltre e a un altrove. «La voce lontana rimbalza vicina / ostinata» ed è alternativamente e insieme voce del padre e della figlia, ricordo, eco, ricerca, delirio, la voce di qualcosa che tenta di dirsi e trovare la propria misura e verità ultima.

Non viene solo da dentro
la voce che si alza
oltre il limite notturno
e abbraccia le ombre.
Per chi come me
non sa pregare
è il grido secolare
che agevola il viaggio
e porta veloce
verso l’ultima forma.
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