ZANGHETTA INDUIÙ

ZANGHETTA INDUIÙ

Cosa c’era prima, al posto della tv, dell’i-pad e dello smartphone? Da noi c’era il balcone. In quel tempo, cinquant’anni fa, a casa mia non c’era la tv né il frigo né l’aria condizionata; e il balcone suppliva a tutti e tre. Offriva frescura e tele-visione, cioè visione a distanza: più corta rispetto alla tv ma più vera e interattiva perché dal balcone si conversava a distanza, con inviti reciproci – a volte minacce- a scendere o a salire. La sera, col caldo, si stava tutti sul balcone, vedevi il mondo intero, dal calzolaio alla luna piena, su schermo tridimensionale. Il top per me era mangiare l’anguria al balcone e la domenica lo spumone. Prima di cena al balcone c’erano i grandi, poi dopo cena arrivavano i ragazzi, amici dei miei fratelli, Mimmo Prete, gli altri. E Zanghetta Induiù. Era lungo e magro, da cui il soprannome Zanghetta, in gergo indigeno sta per sogliola; aveva il ciuffo a banana di Elvis Presley, ma non sapeva l’inglese e finiva tutte le canzoni con in do you, da cui il sopracognome Induiù. (Voi direte, ma perché ci racconti queste cose? Perché stasera sono sul terrazzo, c’è luna piena e alcuni di loro non ci sono più).
Zanghetta sognava la Merica come molti, magari per ricongiungersi al mito Elvis. Sognava hamburger e coca, ma da noi aveva fioroni e cibi del paradiso, fave e cicorie; sognava di vivere tra i prefabbricati e i grattacieli degli States ma da noi c’era il borgo medievale; sognava di somigliare agli americani, ma loro erano già obesi mentre lui era magro e sano, come una zanghetta. Loro respiravano benzina e olio motore, lui salsedine e olio d’oliva. Era in paradiso e non lo sapeva. Neanche noi lo sapevamo, perché gli unici paradisi che conosciamo, dice Proust, sono i paradisi perduti.