𝐔𝐧𝐚 𝐦𝐚𝐦𝐦𝐚, 𝐯𝐞𝐧𝐭’𝐚𝐧𝐧𝐢 𝐝𝐨𝐩𝐨
A casa mia la festa della mamma passava inosservata.
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Una mamma, vent’anni dopo
A casa mia la festa della mamma passava inosservata. Troppo finta e commerciale, non legata a un evento di vita reale e personale, a un evento naturale o soprannaturale. Di una madre si festeggia il giorno della nascita, il suo onomastico o – per chi crede – si celebrano i giorni di Maria, Madre di Dio. Ma la prima domenica di maggio persi mia madre e perciò mi aggrappai alla futile festa della mamma che ne è seguita perché la sua vacuità combaciava col sopraggiunto mio vuoto. Non sarei riuscito a scrivere d’altro, non sarei riuscito a riprendere la scrittura se non partendo da dove si è interrotta. Il silenzio è stata la prima, naturale scelta. È giusto aver pudore dei sentimenti, a cominciare da quelli più intimi, teneri e dolorosi ed è giusto munirsi di una virile armatura davanti ai previsti assalti del fato; temo però che a via di nascondere la vita vera, più tragica e più profonda, favoriamo il deserto intorno a noi, e ci inaridiamo. Siamo invasi da un esibizionismo volgare, che porta in pubblico ogni capriccio e ogni intimità; sessuale, coniugale e privata. I panni sporchi si lavano in tv, quelli puliti si nascondono nell’interiorità. Si sbandierano le trasgressioni. Uno strano pudore invece colpisce gli affetti più dolci e più inermi, soprattutto quando si accompagnano al dolore di una perdita; il pudore che in passato copriva eros oggi copre thanatos, e così si ostenta il sesso e si nasconde il lutto. Il piacere è pubblico, il dolore è privato. Osceno è morire. Certo, non manca lo spettacolo del dolore, va forte il pianto in diretta tv; ma il dolore discreto per una docile morte che non si tinge di thriller, viene rimosso, esorcizzato. Che cattivo gusto esibire il lutto e il distacco…
Così ho pensato di scrivere di mia madre e della sua morte. Fatico a scrivere, tra emozione e riluttanza; ho poi timore di non dire le cose che vorrei, di non essere all’altezza, di non essere vero fino in fondo. Temo di essere risucchiato dal gergo dell’affettività, la Maniera, le parole già dette e usurate dall’infinita ripetizione. Che forse servono come catarsi rituale ma non come squarcio di verità. Come vedete, sto girando intorno, prendo tempo, eppure penso e sento che sia giusto farlo. Perché mette a nudo la condizione umana e svela quel soffio nascosto chiamato anima. Poche cose rivelano la nostra umanità e saldano i legami comunitari; una di queste è l’amore per la madre e il dolore per la sua morte. Perché allora rimuovere, dimenticare? Meglio tentare un outing inconsueto, doloroso e liberatorio…
Mia madre recitava spesso, con ironia, i versi manzoniani del 5 maggio, Ei fu siccome immobile. Il giorno prima di morire chiese che giorno fosse domani: il 5 maggio. La stessa cosa raccontava di suo padre, che amava ripetere una poesia dedicata a morire il giorno in cui si è nati. E fu accontentato, precocemente; la sua vita si chiuse come un cerchio nello stesso giorno in cui ebbe inizio. Di queste coincidenze è fatta la vita, nei suoi passaggi essenziali, a cominciare dall’ultimo.
Prima di lasciare il mio paese, dove vivono i miei e dove ora riposa mia madre, sono tornato a Corso Umberto 117, dove incontrai la prima volta mamma, venendo alla luce. In casa, come un tempo si usava. Vedo mia madre una sera di febbraio partorire il quarto dei suoi figli, l’ultimo. E poi vedo gli anni legati a quella casa delle origini. Ho accarezzato i suoi muri, sono entrato nel suo portone, ho ripercorso come un ladro e amante le sue scale. Ho rivisto una famiglia a tavola, mio padre di fronte a mio fratello maggiore, mia madre e mia sorella di fronte a mio fratello e a me, l’ alternarsi di pietanze, posate e parole, le voci intrecciate, mia madre sempre in piedi… Le sere d’estate insieme al balcone fino a che sonno non ci separi, le mattine d’infanzia risvegliate dal suo allegro rituale (tu sei sbaglia-cristiani, mi diceva, perché le facevo perdere tempo nei pigri giochi del risveglio) e poi da grande i mille ritorni a casa e i mille suoi viatici per la partenza, le cene eccessive e la guerra delle porzioni troppo abbondanti, il suo bacio a mio padre la mezzanotte del Duemila… Scorre il fiume del tempo, si curva e riaffiorano gesti, timbri di voce, fatti, soprattutto i minuscoli, che più riparano la vita dal suo disfarsi. Risale come in un sogno la vita reale, sfuggita alla prigione del tempo. La sua immagine al mare tra le braccia di mio padre in una foto rinvenuta da poco, ragazzi ridenti amanti e incuranti del tempo e del luogo, mentre una barca a vela passa alle loro spalle. La foto di una gioia infinita, di corpi amici del sole, che non appartiene più agli anni ma a quegli istanti fissati una volta per sempre, che hanno scavato una breccia nel muro del tempo. E abitano lì, sottratti alla vita, a narrare che una volta fummo felici. Una foto solare anche se in bianco e nero, odorosa di mare, anche se gialla di cartone avvizzito. Raggiante come l’altra sua immagine del tempo maturo, vestita di bianco, tra i muri d’orto sulla via del mare, dove ha in braccio il suo ultimo bambino e gli occhiali da sole.
E poi la rivedo come un uccello spennato e spaurito nella gabbia di un ospedale, protestando con lo sguardo l’estraneità a quel luogo, rubata al suo habitat naturale, la casa; mentre pian piano cede l’antica premura di rassicurare i suoi figli e cerca da noi, flebilmente, quel sostegno materno che lei non può più dare. Vedo sua figlia diventare sua madre. Perché ad un tratto della vita, i figli si scoprono padri dei loro padri, madri delle loro madri. La vita è un cerchio che congiunge origine e approdo. Chiedendo di lei in ospedale, mi presento in un lapsus d’amore come suo padre. Sei la mia bambina di 86 anni appena compiuti, la nostra bambina. Spaventata bambina, che ha paura dalla morte sin dall’infanzia, sempre in fuga da ogni segno allusivo e funesto. Ed ora lì, sola, in quei luoghi temuti e arcigni, tra quelle icone mortuarie; lasciatela stare, non vedete che ha paura… (È la terza volta che riprendo a scrivere, non riesco a proseguire). Tornare a casa era il suo ultimo sogno, sempre più tenue; negarsi al cibo, sguardi allusivi, respiro affannoso. Non sa più recitare il rosario, a casa negli ultimi giorni si limitava a stringerlo tra le mani quando passava davanti, come in un saluto inerme. E poi le sue pause, accasciata sui mobili a scrutare curva nel vuoto, come mai l’avevamo vista…Non morire prima di morire, le sussurravo impotente, senza farglielo sentire. Crescevano i suoi silenzi, la voce più fioca, il volto ridotto all’essenziale acquista la lievità del passaggio. Poi quelle parole indecifrate che recavano visioni a noi precluse, quelle ombre nere viste dietro di me, quella mano alzata prima di entrare nel tunnel. La mia mano sinistra nella sua mano destra, fino alla fine, fino allo zero cardiaco segnato sul monitor. Se ne va. Guardo il suo grembo, la mia prima casa. Fui l’ultimo a sgorgare da lei, sarò l’ultimo a salutarla. Due veli, sul suo corpo e sui miei occhi, sfumano l’ultimo sguardo di addìo. Poi una disperata vitalità mi riporta al mondo. Fame, sole, esercizi di virilità.
Gli ultimi giorni a casa non le bastavano la vestaglia e il termosifone per scaldarsi, viveva accanto ad una stufetta sempre accesa. Ora rivedo suo marito accanto alla stufetta accesa, cercando in quel piccolo totem domestico il calore perduto e il veicolo per raggiungere lei, come un estremo cordone ombelicale con lei. È sceso il silenzio su mio padre, finge indifferenza per ripararsi dalla morte, non accenna mai a sua moglie, cerca di sfuggire al ricordo che, come si dice al sud, rende cattivo, cioè prigioniero (captivus). Il loro letto matrimoniale, riflesso nello specchio che a volte spiavo nella notte per rubare l’immagine della loro unione dormiente, naufraga come una barca nell’oceano del tempo. Sessantadue anni insieme. Sorveglia quel letto vuotato un Cristo raggiante col cuore che esplode nel petto, come il cuore che è esploso nel corpo di lei. Quattro fratelli smettono d’un colpo di sentirsi ragazzi. Evitano gli abbracci, restano monadi nel dolore; fai l’uomo, si diceva da noi ai bambini, visione militante del destino, mentre mia sorella rimette al suo fianco per l’addio gli arnesi della speranza: la figura di Padre Pio, la Madonna, Gesù, il rosario tra le mani. Così composta si allontana da noi e si iscrive a un’altra specie, l’etnia dei morti. La solitudine dell’obitorio, il rimorso di quella lontananza, la perdita incolmabile del suo anello nuziale…Quanti calci avevo dato nel grembo a mia madre, raccontava lei. Quanta impazienza di uscire. Quante carezze riparatrici ora spargerei sul suo ventre e quanti amorosi calci darei su quel legno definitivo che ci separa per ritornare da lei, dentro di lei. Non essere anche questa volta impaziente, mi dico, e poi questa volta sono io gravido di lei, la porto nel grembo dell’anima. Perché quando muore chi ami non lo perdi del tutto, ma lo incorpori dentro di te, come una gravidanza senza parto che può durare una vita.
Questo non è un elogio funebre, sarebbe superfluo. Che senso ha raccontare le virtù di una madre? Le sappiamo. E non avrebbe senso neanche aggiungere la pietosa avvertenza: ma in questo caso non è per modo di dire. No, è inutile, questa è la cronaca di una madre perduta. Un reportage dai luoghi dolenti dell’anima. Scrivendo di lei, avrei voluto fare a mia madre il vestito più bello. Avrei voluto, ma non ci sono riuscito. Non importa, tanto lei non leggerà queste pagine a mio padre, dalla vista velata, come faceva negli ultimi tempi. Perciò non importa. Di giorno dico: lei vivrà in me. Di notte aggiungo: sono morto con lei. Per restare uniti ci spartiamo le rispettive sorti. Vai a dormire, mi ha ripetuto un paio di volte quella estrema mattina, le uniche cose che ha saputo dirmi, in un sussulto estremo di maternità. Il grembo del sonno provveda a darti quel riparo che io non riesco a darti. Frase delle più futili, e che tuttavia volevano risparmiare al suo figlio minore la fatica di vivere quando muore sua madre. Vai a dormire, cautelati, sottraiti allo spettacolo, tanto si muore da soli o in compagnia di presenze che non figurano agli sguardi del mondo. Dormi anche tu, Mimì, così ci sogniamo a vicenda.
(maggio 2002)