𝗨𝗻𝗮 𝗰𝗵𝗶𝘁𝗮𝗿𝗿𝗮 𝘀𝘂𝗹 𝗺𝗮𝗿𝗲
Questa storia vera d’agosto si potrebbe intitolare: la storia dell’uomo che morì suonando, così come visse. Morire suonando la chitarra è morire in bellezza. È un privilegio dolce e amaro morire suonandosi la sigla di chiusura, in solitudine: per la precisione le rossiniane di Mauro Giuliani, musicista biscegliese contemporaneo di Mozart.
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Una chitarra sul mare
Questa storia vera d’agosto si potrebbe intitolare: la storia dell’uomo che morì suonando, così come visse. Morire suonando la chitarra è morire in bellezza. È un privilegio dolce e amaro morire suonandosi la sigla di chiusura, in solitudine: per la precisione le rossiniane di Mauro Giuliani, musicista biscegliese contemporaneo di Mozart.
Ma la storia si potrebbe intitolare anche in un altro modo verace: per esempio la storia dell’uomo che lavorava il sale, o ancora, l’uomo che sussurrava alle triglie. Perché i pesci si consegnavano a lui, come se sussurrasse loro qualcosa d’invitante. O più romanticamente, si potrebbe raccontare la storia di un uomo che si costruì la barca da solo, e pescava più di tutti, signore delle nasse e dei polpi. Vedeva ogni giorno l’alba sul mare. Un uomo che si era costruito da solo anche la chitarra hawaiana per suonare le musiche di Santo e Jonny, un mito gemellare degli anni Sessanta che diffondeva sogni esotici e romanticherie popolari, per coppie sognanti.
Si chiamava Giuseppe, anzi Peppino, quest’uomo morto d’improvviso in piena musica. Viveva nel sud, a Margherita di Savoia, la città del sale. Aveva lasciato la gioventù nel duro lavoro delle saline e aveva continuato a faticare sul mare. Il giorno era del mare, la sera era della musica. Nel mezzo girava in bici e pensava alla famiglia, che aveva generato nel bello. In fondo anche il mare ha la sua musica ritmata dallo sciabordio; il mare ondisonante, lo chiamava Omero. Il mare, la musica, il sale; la chitarra, la sabbia e il sole. Quasi una canzone di Gino Paoli tradotta in vita vissuta.
Anni Sessanta. Peppino insegnava musica ai bambini; si accordava con rara maestria e tanta pazienza. Amava quel che faceva, non lo faceva solo per guadagnare qualcosa ma per sentirsi ancora il ragazzo con la chitarra. Io me li ricordo i suoi coetanei di paese, negli anni Sessanta. Cos’era per loro la chitarra; un’arma formidabile di seduzione e di riscatto, di sogno e armonia di gruppo. Era l’ecstasy della nostra antichità. Un mio cugino, anche lui Peppino, nel ‘68 mi regalò quand’ero adolescente, una chitarra ed un quaderno per le esercitazioni, scrivendo in testa una frase impegnativa di Leonardo da Vinci: Tristo è quel discepolo che non avanza lo maestro. Io restai molto tristo, perché non avanzai mai lo maestro, cioè Peppino; mi fermai alle prime canzoni più semplici e disarmai dopo un anno. Ma la chitarra era la bacchetta magica dei ragazzi degli anni Sessanta, la marcia in più, l’arma del fascino, il romanticismo delle mani che arrivava al cuore tramite l’orecchio. E l’uomo che morì suonando la chitarra era imbevuto di quelle chitarrate degli anni Sessanta, delle prime serate con il “complesso”, antenato del gruppo; una tourneè addirittura in Libia che restò memorabile in famiglia, come un blasone…
Non pensavo di parlarvi di lui; è accaduto come per caso, mentre risentivo un’intramontabile canzone di Lucio Dalla, Caruso, che resta conficcata nel cuore… Prestando attenzione intermittente alle sue parole, mi sono ricordato la storia di Peppino che è morto suonando e ho capito il nesso struggente tra quella canzone che racconta la fine di un grande tenore e quella storia di provincia avvenuta in un’estate come questa. Dalla cantava il congedo di Caruso, nella musica, davanti al suo mare: “Là dove il mare luccica e tira forte il vento…è una catena ormai, che scioglie il sangue dinde e’ vene…Sentì il dolore nella musica… la vita che finisce ma non ci pensò poi tanto…Gli sembro più dolce anche la morte”.
Peppino aveva una sveglia accanto al suo letto che lo svegliava alle quattro meno un quarto: il giorno per lui cominciava la notte. Alla stessa ora del giorno per lui fece notte, perché morì d’improvviso proprio a quell’ora, di pomeriggio, alla controra, mentre suonava, in attesa dei suoi allievi di chitarra. Ha suonato altre notti, alle quattro meno un quarto, la sua sveglia; i suoi non se la sono sentita di spegnerla ma l’hanno ascoltata nel cuore della notte, e con la notte nel cuore, segretamente aspettando che lui suscitasse. Ma quel suono era il pianto delle cose per gli uomini che ci lasciano; la sirena d’addio del suo piccolo mondo per l’uomo con la chitarra. Ci sono vite poetiche a loro insaputa; esiste una poesia del quotidiano, tenera, inerme, sommersa, e non c’è bisogno di saper scrivere per dare poesia. A volte basta vivere. Ripenso ai nipotini che lo hanno visto morire ma se ne sono fatti una ragione di fierezza dicendo che Dio l’ha voluto in cielo per suonare per lui, perché lui era il più bravo chitarrista sulla terra… “Sentì il dolore nella musica… la vita che finisce, ma non ci pensò poi tanto, gli sembrò più dolce anche la morte…Si sentì felice e ricominciò il suo canto”.
MV, 2008