𝐔𝐧𝐚 𝐛𝐮𝐬𝐬𝐨𝐥𝐚 𝐧𝐞𝐥 𝐥𝐚𝐛𝐢𝐫𝐢𝐧𝐭𝐨 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐒𝐜𝐨𝐧𝐭𝐞𝐧𝐭𝐨
La recensione di Francesco Specchia su Libero
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Una bussola nel labirinto dello Scontento
Articolo su Libero di Francesco Specchia
Quando si dice il fascino del trasversale. «Sor Pampurio è arcicontento del suo nuovo appartamento…». Soltanto Marcello Veneziani con la sua possanza culturale atta a sfarfallare tra l’alto e il basso, poteva citare un incipit degli eroi del Corriere dei piccoli , per descrive la genealogia del malcontento italiano.
Solo Marcello, attingendo al pozzo di San Patrizio del suo immaginario – molto più affine a quello di Umberto Eco di quanto si possa sospettar e- poteva evocare «Pasolini, Ceronetti, Quinzio e Zolla furono i quattro Cavalieri nostrani dell’apocalisse: ciascuno a suo modo offrì voce alla scontentezza radicale della condizione contemporanea»; e lo fa allo scopo d’indagare nel sentimento che anima il presente. E così ci preserva dalla rassegnazione, ma nel contempo riattualizza il male di vivere.
INSOLENTE SCRITTURA Soltanto il barbuto Sartre di Bisceglie poteva, alla fine, realizzare che, in realtà, a ben vedere, lo scontento è la benzina della creatività, è il lievito dell’ispirazione artistica. Perché- scrive Marcello- «senza il tormento della scontentezza difficilmente sarebbero nate molte opere e capolavori», a cominciare dalla sue. E a cominciare dall’ultimissimo suo pamphlet, appunto, Scontenti Perché non ci piace il mondo in cui viviamo (Marsilio, pp.
176, euro 18) che rappresenta il sequel naturale del best seller La cappa, inarrivabile fotografia dell’Italia oppressa. Anticipa, nel prologo, Veneziani stesso: «Con La cappa ho affrontato l’emisfero che grava sulle nostre teste e ci opprime.
Ora, proseguendo la critica del presente, questo saggio volge le sue attenzioni all’emisfero sottostante, nel quale vivono gli scontenti. Per capire di chi è figlia, di chi è madre la scontentezza, da chi è alimentata e veicolata e verso dove si dirige; e infine come coltivarla, domarla e mettere a frutto le sue energie». Siamo nel campo della piena speculazione, che l’autore riesce a divulgare con insolente capacità di scrittura.
Ne nasce un saggio che possiede la levità d’una falena attratta dalla luce della denuncia sociale, della critica antropologica, della politica stessa. Veneziani afferma che, shakespearianamente «l’inverno del nostro scontento, è in realtà, qualcosa di diverso da una storia e una fenomenologia della scontentezza, o un insieme di consigli e precetti per domare la scontentezza». E afferma di vedere il potere come una sorta di matrioska, in cui la politica resta la bambolina più piccola.
Poi ci sono bambole più grandi che riguardano gli assetti internazionali, l’Europa, la Nato, la finanza. In questo quadro, il margine d’azione riguarda la politica, che è pur sempre un campo importante, significativo ma non è tutto. Poi fa una radiografia aggiornata degli scontenti (quasi tutti hanno votato Giorgia Meloni, secondo lui); e seguendo concatenazioni di pensiero, arriva a toccare le più vertiginose vette dello scibile. E spazia, Veneziani, da argomento in argomento, da citazione in citazione, tra i grandi temi contemporanei. E richiama alla memoria il 68: «Se la scontentezza non è solo uno stato psicologico o legato a un luogo, ma è associato aun tempo, a un’epoca, fu nel Sessantotto che emerse come fenomeno virale, esplosivo. Scontento giovanile, soprattutto, che prese il nome di «contestazione globale»).
FINTO DISAPPUNTO Rilegge il 1984 di Orwell: «Il serpeggiante malcontento popolare era senza sbocchi perché i sudditi erano privati di una visione generale e inconsapevoli dei problemi più grandi; così lo scontento viene convogliato su rivendicazioni secondarie. Il potere non reprime il malcontento, lo incanala su altri piani redditizi e funzionali agli assetti di potere». E perfino si permette amabili slanci verso il politicamente scorretto: «Il tema dei diritti civili per i gay è una rivendicazione in ritardo di almeno mezzo secolo sui costumi: chi nega oggi il diritto di essere e di vivere da omosessuali? Solo pochi residui stanchi del passato che non hanno voce in capitolo ed esprimono posizioni marginali. Allora a cosa servono queste vetrine di massima visibilità, se quei diritti sono assodati ed esercitati ogni giorno?». Già, a cosa servono? Ma per spiegare l’anima dello scontento, il nostro non si perde dietro a Max Horkheimer, Marcuse, Serge Latouche con la sua scontentissima decrescita (personaggi che pure Marcello cita). No. Per fornire alla masse lo strumento di un’insoddisfazione filosofica Veneziani sceglie Paolo Villaggio, il «Marx dell’epoca nostra». E finisce col rinforzare il racconto nella scena della coppia di fruttaroli in visita alla Biennale d’arte, Alberto Sordi e Anna Longhi in un film del 1978, Vacanze intelligenti; dove con modi grossolani, rivelavano «il punto debole più elementare: non si distingue più ciò che è arte da ciò che non lo è, al punto che i visitatori scambiano la pingue moglie seduta per un’installazione di pop art». Veneziani finge disappunto esistenziale, antimodernismo, noia verso il mondo che lo circonda come il Giampiero Albertini nel famoso Carosello anni 70 de Gli incontentabili (ne conosco solo altri tre come lui: Massimo Fini, Miska Ruggeri e mio padre). Ma, in fondo in fondo, si avverte che maneggia tutto lo scontento del mondo attraverso un’insana allegria.
8 novembre 2022