𝐓𝐮𝐭𝐭𝐢 𝐩𝐞𝐫 𝐮𝐧𝐨 𝐨 𝐜𝐡𝐢 𝐟𝐚 𝐝𝐚 𝐬𝐞 𝐟𝐚 𝐩𝐞𝐫 𝐭𝐫𝐞?
Dalla grottesca partita del Quirinale, il centrodestra è uscito spaccato in tre fette
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Tutti per uno o chi fa da se fa per tre?
Dalla grottesca partita del Quirinale, il centro-destra è uscito spaccato in tre fette: la Meloni è uscita a testa alta, Salvini a testa bassa, Berlusconi con la testa al centro. La coalizione si è scollata ma non si è rotta, almeno fino a che non sarà varata la riforma elettorale in senso proporzionale; allora, se avverrà, ci sarà davvero il “rompete le righe”. Intanto la Meloni fa pesare la sua bella e solitaria coerenza e si risente per il “tradimento” altrui, Berlusconi torna a trescare per il centro e si scrolla della destra appena non le porta profitto politico, e Salvini resta col cerino in mano a tentare di ricomporre i cocci, anche nella Lega, ammiccando più al centro che alla destra, come vuole la sua attuale permanenza nel governo e il timore di esserne esclusi. Il problema è l’assenza di una linea, una strategia e una vera leadership con una vera cabina di regia.
Ma prima di andare avanti torniamo indietro, al Quirinale. A parte l’infortunio della candidatura Berlusconi che Salvini e Meloni hanno dovuto subire, il centro-destra aveva due possibilità: una era quella di riaffermare la propria diversità alternativa, l’altra quella di ibridarsi e tentare un accordo con gli altri. Nel primo caso, che è poi quello seguito dalla Meloni, la linea è chiara, semplice, coerente; rimarca il bipolarismo, in opposizione alla maggioranza di governo, punta a giocare la partita finale ai voti contro il centro-sinistra quando si voterà alle politiche. Linea a cui probabilmente Berlusconi si sarebbe sottratto già in partenza, o almeno in corso d’opera, salvo prospettiva di successo.
Nel secondo caso, invece, la strategia sarebbe stata un’altra: anziché proporre un proprio candidato, o bruciarne un intero stock come ha fatto Salvini, si dichiarava subito di convergere su Draghi presidente, in modo da puntare su due risultati: spiazzare e scompaginare gli avversari, avere Draghi come garante rispetto al mondo e all’establishment e riaprire la partita del governo, in prospettiva del voto. Gli altri della maggioranza avrebbero faticato a sottrarsi all’indicazione di Draghi presidente; se lo avessero fatto avrebbero come sfiduciato Draghi al governo. L’ostacolo di questa scelta era l’istinto di autoconservazione di molti parlamentari che mai avrebbero messo a rischio un anno di parlamento facendo cadere il governo in carica. Se pure Letta, Renzi, Salvini e Meloni ci avessero provato, magari non avrebbero trovato i numeri sufficienti per eleggerlo.
Ma le due strategie, quella identitaria o quella aperturista, avevano un senso e una dignità; magari partendo dalla seconda, ripiegando in caso negativo sulla prima. Ma la terza, quella di accodarsi a votare Mattarella, è stata un suicidio per Salvini &C., senza l’onore delle armi. Non solo per quel che Mattarella ha rappresentato in questi anni e per come è percepito dalla grande maggioranza degli elettori di centro-destra, ma per lo scenario che si profila: la ferrea diarchia (più Amato alla Consulta) blinda il governo anche per le prossime elezioni; sarà difficile sfidare non solo il centro-sinistra ma anche l’uscente Draghi al governo. Sarebbe come disputare la partita destra contro il resto del mondo.
Ora la Meloni crescerà nei consensi a scapito dei suoi alleati, soprattutto di Salvini. Avrà più peso ma senza agibilità. Il problema di fondo resta: la destra vuole solo crescere in orgogliosa solitudine, senza mai toccare palla, cioè senza mai andare non dico al potere ma nemmeno al governo? Vuole rassegnarsi a coltivare una bella rendita di posizione elettorale e parlamentare ma con zero sbocchi, diventando comunque una destra di testimonianza? O vuole incidere nella realtà e tentare di governare il paese? La domanda, così posta, avrebbe come sua naturale conclusione che è meglio cimentarsi a conquistare un governo tramite ibridazioni piuttosto che attestarsi sulla posizione identitaria. Però ho il sospetto che questa destra sia cosciente dei suoi limiti e degli stop a cui va incontro e dunque alla fine ripieghi sull’identità perché non ce la fa a tentare l’altra strada: mancano uomini, classi dirigenti, relazioni, sostegni, capacità di attingere al serbatoio migliore del paese (lo si vede coi candidati ai comuni). Non riesce a contrapporre nulla, se non le facce dei leader e i loro discorsi; nulla sul piano sociale, culturale, narrativo, mediatico. Come si costruisce un governo senza una rete di relazioni e di appoggi?
Allora, o si accoda al papa straniero, che ieri fu Berlusconi e oggi non si sa chi (dovrei dire Renzi o il neocentrismo che si profila sotto l’emoticon di Casini ma allo stato attuale non ci sono le precondizioni), insomma accettando ibride alleanze, portando consensi in cambio di agibilità e coperture; o deve mettersi sul serio a lavorare per strutturarsi come forza alternativa, nel senso prima detto. Mancano però i tempi, le visioni, la lungimiranza e la solidità per farlo. La conclusione è amarognola ma l’unica praticabile allo stato delle cose: attestarsi sulla linea bipolare, rafforzare il proprio antagonismo, e intanto sondare attraverso le proprie “diplomazie”, lavorando ad altre aperture, o correzioni in corso d’opera. Salvini a questo punto dovrebbe avere la forza di uscire dal governo, prima che venga espulso come un calcolo renale o trattato come un portantino fra tanti balanzoni. E con la Meloni tentare di attrarre grillini in diaspora e scontenti di centro. Ma si deve pensare a un’altra leadership per l’alleanza. Altro francamente non vedo, a parte l’allontanarsi ulteriore della gente dalla politica; ma questo atteggiamento non può coinvolgere chi fa politica, anche in modo indiretto. Unica consolazione: sinistra e M5S sono messi pure peggio, su tutti i piani. Con una differenza: però loro restano al potere o nei suoi immediati paraggi. Nel Palazzo o comunque in ztl.
MV, La Verità (4 febbraio 2022)