𝐒𝐨𝐫𝐞𝐥 𝐭𝐫𝐚 𝐬𝐨𝐜𝐢𝐚𝐥𝐢𝐬𝐦𝐨 𝐞 𝐟𝐚𝐬𝐜𝐢𝐬𝐦𝐨
L’anello di congiunzione tra fascismo e comunismo è un ingegnere filosofo amato da Lenin e da Mussolini, da Gramsci e dai sindacalisti rivoluzionari.
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Sorel tra socialismo e fascismo
L’anello di congiunzione tra fascismo e comunismo è un ingegnere filosofo amato da Lenin e da Mussolini, da Gramsci e dai sindacalisti rivoluzionari. E’ un pensatore, di cui quest’anno ricorrono i cento anni della sua morte, che teorizzò nel primo novecento la rivoluzione separandola dall’idea di progresso e rappresentò la lotta di classe, separandola dal materialismo storico-economico, volgendola in un volontarismo eroico, fondato sul mito. Georges Sorel fu conteso nelle sue idee da Lenin e Mussolini, amato da Croce e da Gramsci, ma anche da Malaparte e da Gobetti oltre che dai sindacalisti rivoluzionari. Espresse e sintetizzò gli spiriti animali del Novecento, da cui scaturirono il comunismo e il fascismo, il sindacalismo e la rivolta antiborghese e antiliberale.
Nel 1908 separò la rivoluzione politica e sociale dalle “illusioni del progresso”, come s’intitolava la sua opera. Il socialismo avrebbe dovuto liberarsi dal progetto illuminista e borghese, espresso da “un’oligarchia di professionisti dell’intelletto e della politica”. Le sue Riflessioni sulla violenza, furono il manifesto del radicalismo rivoluzionario, attirando socialisti e nazionalisti, sindacalisti e futuristi. Fu poi ripubblicato nel 1919, con un’appendice dedicata a Lenin e alla sua rivoluzione.
Sorel si scagliò contro “le potenze plutocratiche” e “le democrazie borghesi”: “possa prima di scendere nella tomba vedere umiliate le democrazie borghesi, oggi cinicamente trionfanti”. Fu accontentato perché fece in tempo ad assistere alla rivoluzione bolscevica e alla nascita del fascismo anche se la sua morte precedette di due mesi la marcia su Roma. E Roma e Mosca si offrirono di elevargli un monumento funebre. L’anatema soreliano contro le plutocrazie risuonerà anche in un conservatore elitista e disincantato come Vilfredo Pareto, ingegnere come Sorel (e Comte). Mussolini riconobbe: “Quel che sono lo devo a Sorel” e poi: “Per me l’essenziale era agire. E a Sorel che io debbo di più. E’ questo maestro del sindacalismo che, con le sue rudi teorie sulla tattica rivoluzionaria, ha contribuito di più a formare la disciplina, l’energia e la potenza delle coorti fasciste”. A sua volta Sorel, pur tributando elogi alla figura “eccezionale” di Lenin, riconobbe a Mussolini, che vedeva come un condottiero rinascimentale, il merito “d’avere inventato la sintesi del dato sociale e del dato nazionale che io ho studiato ma non ho approfondito”. Sorel fu più seguito in Italia che in Francia, partecipò al dibattito sull’inveramento del marxismo che segnò l’interventismo culturale. Ma curiosamente Sorel si schierò contro la guerra 14-18 che a suo dire avrebbe ridotto l’Italia a terra di conquista e criticò l’impresa fiumana che pure esaltava il sindacalismo eroico.
Sorel resta la dogana che separa e unisce il marxismo e le esperienze sindacaliste, nazionaliste e fascista, che fu l’unico socialismo possibile in Occidente; fino alla rivoluzione gobettiana, liberale e giacobina che teorizzò il ricorso alla violenza, giustificando la rivoluzione d’Ottobre. Il suo pensiero prosegue il solco dei Circoli Proudhon. Sorel irrazionalizzò il marxismo, lo inverò in chiave mitica, volontarista e “spirituale”. Per lui, il mito ha priorità sulla scienza, l’intuizione sulla dialettica, l’energia sulla teoria, la mistica e la creatività sul determinismo storico ed economicista, la tradizione sul progresso, l’azione sul pensiero. Sorel riconobbe il ruolo trainante delle minoranze attive anziché appellarsi al protagonismo delle masse. Concepì il socialismo come “una metafisica dei costumi” anziché una “fisica storico-economica”. C’è Bergson nel suo pensiero, c’è Pascal e c’è Nietzsche. Il mito soreliano degli homines novi unisce le rivoluzioni del Novecento contro il capitalismo borghese. Fu Croce, con Lanzillo e Missiroli, a divulgare in Italia con Laterza gli scritti di Sorel, anche se poi nel ’33 disse a Louis Grillet, che “i libri di Sorel sono stati breviari del fascismo”.
Il mito dello sciopero generale in Sorel viene liberato dalla pura rivendicazione economica e visto come una sorta di catarsi sociale che libera energie eroiche come le forze motrici della storia. Il proletariato passa da classe sociale a idea-forza, il socialismo diventa populismo radicale, il sindacato si fa falange.
Sorel vide nei rivoluzionari i nuovi “eroi spartani, difensori della Termopili, che contribuirono a tener viva la civiltà del mondo antico”. Homines novi, si, ma a presidio della Civiltà e della Tradizione. Per Sorel il fallimento della democrazia prova l’impossibilità di fondare la polis sul capitalismo, da cui scaturisce solo anarchia individuale. La città nuova si fonderà sul Lavoratore, che è l’erede dell’Eroe antico e del Santo medievale, e il vero successore del cittadino borghese moderno. Toni non diversi userà poi Junger. La sua visione è “un nuovo paganesimo rivoluzionario”, ma in nuce c’è già il fascismo. Sulla scia di Comte e de Maistre, ritenne che “non bisogna avere la fobia del soprannaturale” e previde che il cristianesimo non perirà perché la facoltà mistica è insita nell’uomo Netta è la frattura con Marx, l’ateismo militante e l’illuminismo scientista. Sorel riconosce “Il vigore straordinario del cattolicesimo” e condanna progressisti, modernisti e protestanti (“cristiani rilassati”), che risolvono la fede nell’orizzonte storico e terreno; preferì i cattolici intransigenti nel segno della tradizione, i frati e i mistici. Rovesciò la teoria marxista nella prassi. Come fece Gentile riversando il marxismo nell’idealismo e poi fondando l’attualismo; così fare pure Gramsci con la sua filosofia della prassi. Da lì sorgerà il fascismo che è “attivismo assoluto trapiantato sul terreno della politica” per Tilgher, o “dinamo” secondo Camillo Pellizzi. Con Sorel il cogito ergo sum diventò agitamus ergo sumus (Hans Kohn). Pare d’intravedere qualche germe di ’68… Sorel fu il volto rivoluzionario del Novecento.
Il Borghese, maggio 2022