Se tutti si inginocchiano, chi difenderà la cultura e la storia occidentale?
di Giulio Meotti
25 giugno 2020
Pezzo in lingua originale inglese: When Everyone Kneels, Who Will Stand Up for Western History and Culture?
Traduzioni di Angelita La Spada
“Abbiamo timore che qualsiasi cosa facciamo sia coloniale. Ci sono molti Paesi disposti a entrare in quel vuoto di governance a livello globale: Cina, Iran, Russia, Turchia.” – Bruce Gilley, The Times, 10 maggio 2018.
Il senso di colpa postcoloniale per il passato imperiale britannico sta, tuttavia, avendo ripercussioni ben più ampie dell’abbattimento delle statue. Ad esempio, c’è ancora un silenzio totale riguardo ai cristiani perseguitati, secondo un vescovo britannico che è stato incaricato dal governo di indagare sui casi di persecuzione dei cristiani in tutto il mondo e sulle loro sofferenze.
È come se la storia occidentale sia stata riscritta per rappresentare tutta la civiltà occidentale come un’unica e gigantesca apartheid. È come se non dovessimo solo abbattere le statue, ma anche noi stessi. Una democrazia di successo, tuttavia, non può essere costruita cancellando semplicemente il passato.
“Ogni documento è stato distrutto o falsificato, ogni libro è stato riscritto, ogni quadro ridipinto, ogni statua, ogni strada e ogni edificio sono stati rinominati, ogni data è stata modificata. E il processo procede di giorno in giorno, di minuto in minuto. La storia si è fermata. Non esiste null’altro che un eterno presente in cui il Partito ha sempre ragione.” – George Orwell, 1984.
A cosa punta questo macabro gioco al massacro? (…) È una presa di potere per creare una rivoluzione culturale, per impedire a chiunque di dire che le culture non sono tutte uguali: per mettere sotto processo il passato dell’Europa; per infondere un rimorso perenne nelle coscienze e per diffondere il terrore intellettuale al fine di promuovere il multiculturalismo.
“L’antirazzismo non è più la difesa della pari dignità delle persone, ma un’ideologia, una visione del mondo”, ha dichiarato il filosofo francese Alain Finkielkraut, figlio di sopravvissuti alla Shoah.
“L’antirazzismo si è trasformato. (…) All’ora della grande migrazione non si tratta più di accogliere i nuovi arrivati integrandoli nella civiltà europea, ma di esporre i difetti di questa civiltà”.
Finkielkraut ha definito “l’autorazzismo” come “la patologia più sconcertante e grottesca della nostra epoca”.
La sua capitale è Londra.
“Topple the racists” (“Abbatti i razzisti”) è una mappa con sessanta statue in trenta città inglesi di cui si chiede l’abbattimento in omaggio al movimento nato negli Stati Uniti in seguito all’uccisione di George Floyd, un afroamericano deceduto mentre un poliziotto bianco, Derek Chauvin, gli teneva premuto il ginocchio sul collo.
A Bristol, una folla ha gettato in acqua la statua del filantropo e proprietario di schiavi Edward Colston. Poi, le proteste si sono spostate a Londra con atti di vandalismo ai danni delle statue di Winston Churchill, del Mahatma Gandhi e di Abraham Lincoln. E il sindaco, Sadiq Khan, ha annunciato una commissione sulla rimozione di statue che non riflettono i “valori di Londra”, dopo aver rimosso il monumento dedicato a Robert Milligan, ricco mercante scozzese di schiavi, che era posto fuori dal Museum of London Docklands. Ci sono i nomi di altre due statue da rimuovere da due ospedali londinesi.
Vandalismo e odio di sé stanno rapidamente guadagnando terreno. L’epopea delle grandi scoperte associate all’impero britannico è diventata vergognosa. Le proteste non riguardano la schiavitù. Oggi, nessuno nel Regno Unito si rallegrerebbe per quel periodo. È piuttosto un appello all’epurazione culturale di tutte le opere che contraddicono il nuovo mantra: “diversità”.
“Una nuova forma di talebani è nata oggi nel Regno Unito”, ha scritto Nigel Farage, riferendosi alle due gigantesche statue del Buddha che vennero fatte saltare in aria dai talebani in Afghanistan, nel 2001. “Se non ristabiliamo presto l’autorità morale, sarà impossibile vivere nelle nostre città.”
La lista delle statue da rimuovere annovera i nomi di Oliver Cromwell e Horatio Nelson, due figure di spicco della storia britannica, nonché quello di Nancy Astor, la prima donna a essere eletta deputata nel 1919. Spiccano anche i nomi di Sir Francis Drake, Cristoforo Colombo e Charles Gray (primo ministro il cui governo supervisionò all’abolizione della schiavitù nel 1833).
Il premier britannico Boris Johnson, esprimendo opposizione alla campagna di rimozione, ha dichiarato:
“Noi non possiamo tentare di modificare o censurare il nostro passato. Non possiamo fingere di avere una storia diversa. Le statue nelle nostre città sono state erette da generazioni precedenti. Avevano prospettive diverse, una diversa comprensione di ciò che è giusto e sbagliato. Ma quelle statue ci insegnano il nostro passato, con tutti i suoi errori. Abbatterle significherebbe mentire sulla nostra storia e impoverire l’istruzione delle generazioni future”.
Il senso di colpa postcoloniale per il passato imperiale britannico sta, tuttavia, avendo ripercussioni ben più ampie dell’abbattimento delle statue. Ad esempio, c’è ancora un silenzio totale riguardo ai cristiani perseguitati, secondo un vescovo britannico che è stato incaricato dal governo di indagare sui casi di persecuzione dei cristiani in tutto il mondo e sulle loro sofferenze. Inoltre, c’è soprattutto un ritiro dalla scena mondiale. “Quando l’Occidente perde fiducia in se stesso, a causa dell’eccessivo o assurdo senso di colpa per il colonialismo, vira verso l’isolazionismo”, ha osservato Bruce Gilley, un professore di Scienze Politiche. “Abbiamo timore che qualsiasi cosa facciamo sia coloniale. Ci sono molti Paesi disposti a entrare in quel vuoto di governance a livello globale: Cina, Iran, Russia, Turchia.”
Il senso di colpa postcoloniale sta inoltre soffocando la libertà di espressione nel Regno Unito. Trevor Phillips, l’ex presidente della Commissione britannica per l’Uguaglianza e per Diritti dell’uomo, è stato sospeso dal Partito Laburista con l’accusa di “islamofobia”. La colpevolezza di Phillips? Essere stato critico nei confronti del multiculturalismo. Nelle parole di Phillips:
“A mio avviso, la reticenza nell’affrontare questioni legate alla diversità e ai suoi disagi rischia di consentire al nostro Paese di sonnambulare verso una catastrofe che metterà le comunità l’una contro l’altra, approverà le aggressioni sessiste, sopprimerà la libertà di espressione, annullerà le libertà civili duramente conquistate e minerà la democrazia liberale che ha servito così bene questo paese per così tanto tempo”.
Phillips ha inoltre affermato che i politici e i giornalisti britannici sono “terrorizzati” all’idea di parlare di razza, lasciando così che il multiculturalismo diventi un ” racket” nelle mani di coloro che cercano di consolidare la separazione. Un uomo originario della Guyana, un veterano del Labour Party e presidente della Commissione per l’Uguaglianza ha detto la verità ai multiculturalisti.
Gli attivisti mobilitati per rimuovere le statue vogliono cambiare radicalmente la fisionomia della capitale britannica. Lo scontro sembra essere costituito, da un lato, da violenti censori che bullizzano tutti e, dall’altro lato, da politici vigliacchi che si adeguano, hanno paura e si inchinano ai vandali. I monumenti sono una parte vitale e visibile di una città, ne incarnano il posto nella storia, altrimenti restano solo fermate dei bus e Burger King. Questi contestatori sembrano desiderare una storia riveduta e asettica. Se non comprendiamo rapidamente che, se cancelliamo il nostro passato, come ha cercato di fare l’ex Unione Sovietica, sarà più facile per queste persone creare la loro visione del nostro futuro, privandoci del timone per pilotarci e ancorare noi e i nostri valori. Ci resteranno in mano soltanto i cocci della nostra storia e cultura.
Questo movimento di odio dell’Occidente – che ha, come tutti noi, una storia imperfetta – sembra essere nato nelle università britanniche. A Cambridge, docenti di Letteratura hanno chiesto di sostituire gli autori bianchi con quelli di colore per “decolonizzare” il curriculum. L’Unione degli studenti della Soas, la prestigiosa Scuola di studi orientali di Londra, ha invocato la rimozione dal curriculum di Platone, Kant, Cartesio, Hegel e altri nomi della cultura occidentale, perché “tutti bianchi”, come se il colore della pelle dovesse essere l’unico fattore determinante dei nostri pensieri. A Manchester, studenti hanno cancellato il murale della poesia “If” di Kipling.
Nigel Biggar, uno studioso del colonialismo, ha detto che un “clima di paura” è tornato a regnare nelle università britanniche. Di recente, l’Università di Liverpool ha deciso di cambiare il nome di uno degli edifici del campus, intitolato all’ex primo ministro William Gladstone. A Oxford, la statua di Cecil Rhodes, filantropo e fondatore della Rhodesia (oggi Zimbabwe), ha le ore contate
“C’è un po’ di ipocrisia,” ha commentato Lord Patten, cancelliere di Oxford, “nel finanziare gli studi a Oxford di un centinaio di studenti stranieri all’anno, circa un quinto proveniente dall’Africa, e poi dire che vogliamo gettare la statua di Rhodes… nel Tamigi”. Patten ha affermato che la sua opinione non si discosta da quella “espressa da Nelson Mandela in occasione dell’istituzione del Rhodes Trust nel 2003”, pertanto, nonostante i “problemi legati a Cecil Rhodes nella storia, se andava bene per Mandela, allora va bene anche a me”. Ma non ai revisionisti.
È come se la storia occidentale sia stata riscritta per rappresentare tutta la civiltà occidentale come un’unica e gigantesca apartheid. È come se non dovessimo solo abbattere le statue, ma anche noi stessi. Una democrazia di successo, tuttavia, non può essere costruita cancellando semplicemente il passato.
La statua di Winston Churchill a Londra – il quale si oppose ai nazisti durante la Seconda guerra mondiale e salvò l’Europa dalle barbarie – è stata coperta dalle autorità locali durante le recenti proteste. Il suo “impacchettamento” ricorda una delle antiche statue nude romane che sono state coperte per compiacere il presidente iraniano Hassan Rohani in visita a Roma o la “sparizione” dei ritratti nella ex Unione Sovietica di persone cadute in disgrazia per decisione del Politburo. Cancellare la propria storia non serve a nulla. Si può non avere una storia perfetta, ma è comunque la propria storia. Come ha scritto lo storico Victor Davis Hanson, un Paese “non deve essere perfetto per essere buono”. Asportare le parti sgradevoli non cambia i fatti: possono essere rimpiazzati da parti più sgradevoli.
Alcuni musei londinesi hanno già adottato da tempo questa politica di epurazione e di autocensura. La Tate Gallery di Londra ha vietato la creazione artistica di John Latham che mostrava una copia del Corano dentro una lastra di vetro. Il Victoria and Albert Museum ha prima esposto e poi ritirato un’opera d’arte devozionale dell’immagine di Maometto. La galleria Saatchi ha esibito due opere che sovrapponevano scrittura araba a immagini nude, ma poi ha coperto i due dipinti dopo le lamentele dei visitatori musulmani. La Whitechapel Art Gallery ha epurato una mostra rimuovendo delle bambole nude esposte.
Il dizionario Merriam-Webster ha appena rivisto e aggiornato la definizione di “razzismo” per includere quello “sistemico”, il che significa presumibilmente che l’intera società è colpevole e ingiusta.
I censori sembrano intenzionati a controllare il nostro universo mentale, come nel romanzo di George Orwell, 1984:
“Ogni documento è stato distrutto o falsificato, ogni libro è stato riscritto, ogni quadro ridipinto, ogni statua, ogni strada e ogni edificio sono stati rinominati, ogni data è stata modificata. E il processo procede di giorno in giorno, di minuto in minuto. La storia si è fermata. Non esiste null’altro che un eterno presente in cui il Partito ha sempre ragione.”
Questo processo di auto-avvilimento occidentale è iniziato molto tempo fa. I consiglieri laburisti in tutto il Regno Unito, ad esempio, hanno cominciato a esaminare tutte le statue sotto la loro giurisdizione. Il sindaco di Bristol, Marvin Rees, anziché difendere lo Stato di diritto, ha definito la violenta rimozione della statua di Colston un atto di “poesia storica”. Quando i vandali hanno iniziato a distruggere le statue, molti hanno applaudito. Il premier britannico Boris Johnson ha definito questi atti di distruzione “iconoclastia politicamente corretta”.
Una settimana prima della polemica sul destino delle statue, nel Regno Unito le persone si sono inginocchiate nel nome di George Floyd. Era come se ci fosse una richiesta collettiva che la società occidentale nel suo insieme doveva pentirsi. Sembrava una forma di isteria ideologica, non così distante da quella dell’Inquisizione o dei processi alle streghe di Salem, che faceva sentire chi si inginocchiava più virtuoso, dalla “parte giusta” della giustizia. Si sono messi in ginocchio anche i poliziotti britannici, mentre negli Stati Uniti la speaker della Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi, e altri parlamentari dem si sono inginocchiati davanti ai loro feudatari. Entrambi sono stati atti di irresponsabilità e capitolazione. Pochi giorni dopo, l’establishment britannico si è inchinato ai nuovi talebani.
A cosa punta questo macabro gioco al massacro? Non a demolire i monumenti in quanto tali, come le statue di Cristoforo Colombo che sono state distrutte o decapitate. È più di questo. È una presa di potere per creare una rivoluzione culturale, per impedire a chiunque di dire che le culture non sono tutte uguali: per mettere sotto processo il passato dell’Europa; per infondere un rimorso perenne nelle coscienze e per diffondere il terrore intellettuale al fine di promuovere il multiculturalismo.
Quante persone si rifiuteranno di acconsentire a questa soppressione forzata della storia? Se molti si inginocchiano davanti a questo nuovo totalitarismo, chi avrà il coraggio di difendere la cultura e la storia occidentale?
Giulio Meotti, redattore culturale del quotidiano Il Foglio, è un giornalista e scrittore italiano.