𝐒𝐜𝐨𝐧𝐭𝐞𝐧𝐭𝐢, 𝐢𝐥 𝐦𝐚𝐥𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐧𝐨𝐬𝐭𝐫𝐚 𝐞𝐩𝐨𝐜𝐚
Ho dedicato il mio nuovo libro agli Scontenti. Mi sono chiesto: qual è lo stato d’animo prevalente tra gli italiani e gli occidentali?
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Scontenti, il male della nostra epoca
Ho dedicato il mio nuovo libro agli Scontenti. Mi sono chiesto: qual è lo stato d’animo prevalente tra gli italiani e gli occidentali? Siamo scontenti della vita che facciamo, del mondo che ci circonda e pure di noi stessi. La scontentezza è il male oscuro della vita presente. Ci fu l’epoca dei rivoluzionari, ci fu il tempo dei ribelli, questa è l’età degli scontenti. Che non sono minoranze bellicose come le altre due, semmai maggioranze insoddisfatte. La nostra non è l’epoca dell’odio, della rabbia e del rancore, come ripetono ormai da troppo tempo troppi intellettuali, politici e osservatori. C’è un sentimento che precede il risentimento, da cui traggono origine poi l’odio, la rabbia o il rancore: la scontentezza. Prima si è scontenti e poi dopo, solo dopo, si riversa su qualcuno o qualcosa il livore. Le passioni tristi di Spinoza trovano poi una causa esterna a cui attribuirle e farsi ostili.
Benché più longevi e benestanti, non viviamo felici e contenti. Si è spento o affievolito il piacere di vivere. Perché siamo scontenti pur vivendo meglio di ogni ieri, pur disponendo di più benessere, più conforti, più farmaci, più mezzi tecnologici, più anni di vita rispetto ai nostri predecessori? Perché si sono allargati a dismisura i desideri fino a prevalere sulla realtà e sui diritti. Il desiderio è illimitato, la nostra vita invece ha limiti inevitabili. Ma la forbice tra realtà e aspettative non basta a spiegarlo. Proviamo a capire le origini dello scontento, i motivi, le forme, gli sbocchi e come farne buon uso.
La scontentezza è il filo che ci accomuna e al tempo stesso ci separa in una specie di secessione o defezione individuale. C’è qualcosa nell’aria del nostro tempo che fa della scontentezza il tratto comune dell’umanità, almeno in Occidente; è quel che genericamente si definisce «disagio di vivere». Anche quando deriva da cause esterne, da rapporti sociali o da un clima epocale, lo scontento investe il livello più intimo della nostra vita. Risale dal profondo delle radici e mette in gioco le basi della nostra convivenza, del nostro stare al mondo. Non siamo contenti di come siamo, come viviamo, come veniamo trattati e considerati; non siamo contenti del tempo e del mondo in cui viviamo, a partire da chi ci circonda; non siamo contenti delle classi dominanti e del nostro paese.
A lungo il potere si è retto sulla rassegnazione dei sudditi, sull’accontentarsi della gente nel timore del peggio e dell’ignoto. Poi è accaduto qualcosa che ha capovolto il senso e la direzione del potere; da allora ha puntato sullo scontento e sulla possibilità di incanalarlo e usarlo a suo vantaggio. I cittadini sono stati controllati, se non asserviti, tramite voglie e intolleranze veicolate, consumi e appetiti che li hanno resi dipendenti e alienati, malleabili e manovrabili. Ma strada facendo la scontentezza è sfuggita di mano, si è resa ingovernabile, incontrollabile, e si è fatta malcontento…
La presente, diffusa scontentezza ha motivazioni contingenti e strutturali. Le prime sono legate al periodo storico che stiamo vivendo, che esige ogni giorno rinunce, sacrifici, restrizioni e dispensa controlli, minacce e paure. L’emergenza sanitaria con la pandemia, l’emergenza bellica con la guerra in Ucraina, l’emergenza ambientale e climatica con i rischi del pianeta, l’emergenza economica, energetica e sociale che deriva da tutto questo. Governance precarie e inadeguate guidano questi processi, a loro volta guidate da livelli più alti di potere che non rispondono a nessuno. La politica non riesce più a esercitare la decisione né a intercettare il dissenso; tende a unificarsi e uniformarsi, fino a inglobare le differenze, che sono poi il sale della libertà. Nella matrioska del potere, il governo politico è la bambola più piccola. Ma oltre le emergenze contingenti ci sono le tendenze strutturali. Avvertiamo la decadenza dei rapporti umani, civili e intersessuali, e dei rapporti tra cittadini e istituzioni; è la perdita delle differenze nel segno dell’omologazione e la perdita delle comunanze nel segno dell’atomizzazione. L’umanità appare in pericolo, incalzata da mutazioni genetiche ed ecologiche, dagli scompensi tra sovrappopolazione mondiale e denatalità occidentale e da fattori molteplici che destabilizzano il mondo e i legami: l’avvento del transumano, il genderfluid, l’intelligenza artificiale, le neuro-tecnologie, la preminenza del virtuale sul reale, della tecnica sull’umanesimo, della finanza sulla cultura. Il disagio, lo spaesamento che ne deriva, radica lo scontento; lo rende permanente e non passeggero, sostanziale e non occasionale. Lo scontento è il frutto della convergenza tra il malessere spirituale che è dentro di noi e il malessere storico che è fuori di noi, nel rapporto con la nostra epoca. Disagio psichico e disagio sociale.
Nel libro precedente, La Cappa, ho affrontato l’emisfero che grava sulle nostre teste e ci opprime. Ora, proseguendo la critica del presente, questo saggio volge le sue attenzioni all’emisfero sottostante, nel quale vivono gli scontenti. Per capire di chi è figlia, di chi è madre la scontentezza, da chi è alimentata e veicolata e verso dove si dirige; e infine come coltivarla, domarla e mettere a frutto le sue energie. Di trattati sulla felicità, e sull’infelicità, è piena la letteratura, dai classici dell’antichità ai tempi più recenti. Manuali, consigli, guide per essere felici o per schivare l’infelicità. Inesistenti, o quasi, sono i trattati sulla contentezza e la scontentezza. Parliamone, senza reticenze. Il mondo regge su chi si accontenta ma cammina sulle gambe degli scontenti.
(Panorama n.45)