Schiavitù moderna e ipocrisia del politicamente corretto
di Judith Bergman 5 luglio 2020
Pezzo in lingua originale inglese: Modern Slavery and Woke Hypocrisy
Traduzioni di Angelita La Spada
In Gran Bretagna, sono circa 136 mila le persone che vivono in una situazione di schiavitù moderna. La schiavitù nel Regno Unito assume la forma del lavoro forzato, della servitù domestica e dello sfruttamento sessuale. Albanesi e vietnamiti sono tra i gruppi che costituiscono la maggioranza degli schiavi. – Global Slavery Index, 2018.
Attualmente ci sono circa 9,2 milioni di schiavi neri in Africa. La schiavitù, secondo l’Indice Globale della Schiavitù, include il lavoro forzato, lo sfruttamento sessuale e i matrimoni coatti. – Global Slavery Index, 2018.
“Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), oggi ci sono oltre il triplo di persone che vivono in una condizione di servitù forzata rispetto a quante ne sono state catturate e vendute nel corso dei 350 anni della tratta transatlantica degli schiavi”, Time Magazine, 14 marzo 2019.
La schiavitù moderna frutta alle reti criminali circa 150 miliardi di dollari all’anno, poco meno del traffico di droga e di armi.
“I Paesi del G-20 importano ogni anno prodotti a rischio di provenienza da lavoro forzato, generati tramite schiavitù moderna, per un valore di circa 354 miliardi di dollari.” – Global Slavery Index, 2018.
Raichatou, una schiava maliana, nel 2013 ha raccontato al Guardian di essere stata ridotta in schiavitù all’età di 7 anni quando sua madre, anche lei schiava, morì. “Mio padre non poté fare altro che guardare quando il padrone di mia madre venne a reclamare me e i miei fratelli”, ha raccontato la donna. Ha lavorato gratis come domestica per quasi vent’anni ed è stata costretta a sposare un altro schiavo che non conosceva, in modo da poter fornire al suo padrone altri schiavi
La cronaca è densa di notizie riguardanti i sostenitori del movimento Black Lives Matter (BLM) che hanno vandalizzato e abbattuto le statue di mercanti e di proprietari di schiavi e di chiunque essi ritengono sia stato coinvolto storicamente nella schiavitù. A Bristol, in Inghilterra, una statua del mercante di schiavi Edward Colston è stata abbattuta e gettata nelle acque del porto. In Belgio, le statue del re Leopoldo II sono state deturpate.
Questi attacchi hanno indotto alcune autorità locali a valutare se tutte le statue ritenute offensive della sensibilità attuale debbano essere rimosse. Il sindaco di Londra Sadiq Khan ha annunciato una commissione che valuterà le future sorti dei monumenti, come le statue e i nomi delle strade, nella capitale del Regno Unito.
Ciò che risulta incomprensibile è in che modo l’attacco alle vecchie statue di persone che sono morte da tempo dovrebbe servire a qualcuno, soprattutto a milioni di persone che a prescindere dal colore della pelle sono oggi ridotte in schiavitù. Sembrerebbe che gli attivisti BLM del politicamente corretto e i loro numerosi sostenitori che si sono messi in ginocchio non si preoccupino del dramma degli schiavi moderni, che si stima siano attualmente 40 milioni. Evidentemente, è molto più facile e presumibilmente più piacevole distruggere i monumenti storici occidentali piuttosto che avviare il difficile lavoro di abolire la schiavitù moderna.
Nello stesso Regno Unito, c’è una sconcertante gamma di schiavitù moderna, qualcosa che i fautori autoctoni del politicamente corretto ignorano tranquillamente mentre attaccano con ardore le statue in pietra e di bronzo. Secondo il Rapporto annuale sulla schiavitù moderna del 2019, redatto dal governo britannico, nel Regno Unito, ci sono almeno 13 mila potenziali vittime della schiavitù, anche se tale cifra è opinabile poiché il report governativo risale al 2014. Secondo il Global Slavery Index (Indice Globale della Schiavitù) del 2018, sono circa 136 mila le persone che vivono in una situazione di schiavitù moderna in Gran Bretagna.
La schiavitù nel Regno Unito assume la forma del lavoro forzato, della servitù domestica e dello sfruttamento sessuale. Albanesi e vietnamiti sono tra i gruppi che costituiscono la maggioranza degli schiavi.
I media britannici hanno riportato numerose notizie riguardanti diverse migliaia di vietnamiti, metà dei quali hanno meno di 18 anni, che vengono rapiti divenendo vittime del traffico clandestino che li porta nel Regno Unito, dove sono costretti a lavorare come schiavi nelle fattorie di cannabis. Lì, costituiscono una piccola parte della “vasta macchina criminale che rifornisce il mercato nero della cannabis da 2,6 miliardi di sterline”. Coloro che non sono costretti a lavorare nell’industria della cannabis vengono schiavizzati nei “negozi di manicure, nei bordelli e nei ristoranti o dietro le porte delle abitazioni private, lavorando come domestici”. A gennaio, BBC News ha pubblicato un articolo su una ragazzo vietnamita di nome Ba, che è stato rapito da una banda cinese e portato nel Regno Unito, dove il suo padrone cinese gli faceva soffrire la fame e lo picchiava ogni volta che una delle piante di cannabis non attecchiva.
Al BLM potrebbe non interessare molto la vita dei vietnamiti nel Regno Unito, dopotutto, per il movimento contano le vite dei neri, e quelle degli schiavi neri in Africa? Secondo il Global Slavery Index, attualmente nel continente africano ci sono circa 9,2 milioni di uomini, donne e bambini, che vivono in una situazione di schiavitù moderna, termine che include il lavoro forzato, lo sfruttamento sessuale e i matrimoni coatti.
“Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), oggi ci sono oltre il triplo di persone che vivono in una condizione di servitù forzata rispetto a quante ne sono state catturate e vendute nel corso dei 350 anni della tratta transatlantica degli schiavi”, ha riportato Time Magazine, nel marzo del 2019. Stando all’OIL, 25 milioni di schiavi moderni sono costretti a svolgere un lavoro forzato e 15 milioni sono vittime di matrimonio forzato.
Attualmente la schiavitù frutta alle reti criminali circa 150 miliardi di dollari all’anno, poco meno del traffico di droga e di armi. “La schiavitù moderna è senza alcun dubbio più redditizia ora che in qualsiasi momento della storia umana”, ha detto al Time Siddhart Kara, un economista del Carr Center for Human Rights Policy. Secondo il Global Slavery Index del 2018, “i Paesi del G-20 importano ogni anno prodotti a rischio di provenienza da lavoro forzato, generati tramite schiavitù moderna, per un valore di circa 354 miliardi di dollari.”
Nel 2017, sono emerse immagini scioccanti di vere e proprie aste di schiavi in Libia: la CNN ha documentato un episodio in cui uomini che parlavano arabo hanno venduto dodici nigeriani. Nel 2019, Time Magazine ha intervistato un migrante africano, Iabarot, che era stato venduto come schiavo mentre cercava di raggiungere l’Europa:
“Quando Iabarot raggiunse il confine meridionale della Libia, incontrò un tassista che con fare apparentemente amichevole si offrì di condurlo gratuitamente nella capitale, Tripoli. Invece, fu venduto a un ‘libico bianco’ o arabo per 200 dollari. Iabarot fu costretto a ripagare il suo ‘debito’ lavorando in un cantiere edile, uno schema che tornava a ripetersi ogni volta che veniva venduto e rivenduto”.
Lo sfruttamento sessuale costituisce una parte considerevole della schiavitù moderna. La mafia nigeriana, ad esempio, secondo un reportage del 2019 del Washington Post, gestisce il traffico di decine di migliaia di donne:
“Alcuni esperti affermano che tra il 2016 e il 2018 sono arrivate in Sicilia fino a 20 mila donne nigeriane, alcune delle quali minorenni, in un traffico coordinato tra i nigeriani in Italia e quelli nel loro Paese”.
Secondo un rapporto del luglio 2017 dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) delle Nazioni Unite:
“Nel giro di tre anni il numero delle potenziali vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale arrivate via mare in Italia è aumentato del 600 per cento. Un aumento che è continuato anche in questi primi sei mesi del 2017, con la maggior parte delle vittime che arriva dalla Nigeria”.
In questo rapporto, l’OIM ha stimato che l’80 per cento delle ragazze, spesso minorenni, provenienti dalla Nigeria – il cui numero è passato da 1.500 nel 2014 a oltre 11 mila nel 2016 – fossero “potenziali vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale”.
In alcune parti del continente africano, specialmente nel Sahel, la schiavitù è ancora radicata nella cultura tradizionale, anche se, ufficialmente, è stata bandita. In Paesi come il Mali e la Mauritania, la cosiddetta schiavitù ereditaria o “basata sulla casta” – in cui la schiavitù viene tramandata di generazione in generazione, in modo che gli schiavi nascano tali – è ancora praticata da qualcuno.
Si stima che nel 2013 circa 250 mila persone vivessero in condizione di schiavitù in Mali, dove la schiavitù non è illegale. Una schiava maliana di nome Raichatou, ha raccontato al Guardian nel 2013 di essere stata ridotta in schiavitù all’età di 7 anni quando sua madre, anche lei schiava, morì. “Mio padre non poté fare altro che guardare quando il padrone di mia madre venne a reclamare me e i miei fratelli”, ha raccontato la donna. Ha lavorato gratis come domestica per quasi vent’anni ed è stata costretta a sposare un altro schiavo che non conosceva, in modo da poter fornire al suo padrone altri schiavi.
Si è calcolato che in Mauritania fino al 20 per cento della popolazione è asservito, anche se la schiavitù è stata abolita ufficialmente nel 1981. Gli schiavi provengono principalmente dalla minoranza di etnia Haratin, mauri neri, mentre quasi la metà della popolazione è costituita da arabi o berberi. Secondo un reportage del Guardian pubblicato nel 2018:
“La schiavitù ha una lunga storia in questa nazione dell’Africa sahariana. Per secoli, i Mori arabofoni hanno fatto irruzione nei villaggi africani, dando vita a un rigido sistema di caste che esiste ancora oggi, con abitanti dalla pelle più scura che hanno un debito nei confronti dei loro ‘padroni’ dalla pelle più chiara. Lo status di schiavo viene tramandato di madre in figlio e gli attivisti che si battono contro la schiavitù vengono regolarmente torturati e detenuti. Tuttavia il governo nega sistematicamente l’esistenza della schiavitù in Mauritania, vantandosi di aver sradicato questa pratica”.
Il reportage descriveva altresì alcuni degli orribili destini degli schiavi Haratin:
“Aichetou Mint M’barack era una schiava ereditaria della zona di Rosso. Come sua sorella, venne portata via da sua madre e poi data a un membro della famiglia del padrone come serva. Si è sposata nella casa dei suoi padroni e ha avuto otto figli, due dei quali le furono portati via per diventare schiavi di altre famiglie. Nel 2010, la sorella maggiore di Aichetou riuscì a liberarla (…) dopo essere fuggita a sua volta dai suoi padroni quando loro versarono dei carboni ardenti addosso al suo bambino, uccidendolo”.
Black Lives Matter e numerosi dirigenti aziendali, professori universitari, personalità della cultura, dello sport e dei media che sostengono il movimento sembrano totalmente indifferenti al destino di persone come Aichetou. È molto probabile che essi non abbiano mai sentito parlare di lei e dei suoi innumerevoli compagni di sventura. Sono apparentemente vite di neri che non contano per nessuno tranne per le persone coraggiose che operano nelle organizzazioni locali che si battono contro la schiavitù.
Piuttosto, BLM e i suoi lacchè discutono incessantemente dell’obiettivo di cambiare i nomi delle strade e delle università e di rimuovere le statue, tutte cose che non fanno altro che indicare una virtù puerile. Perdono tempo a discutere se le persone che non sono mai state schiave dovrebbero ottenere risarcimenti da parte di chi non ha mai posseduto uno schiavo.
Assumere queste prese di posizione, ignorando la sconcertante cifra di 40 milioni di vittime dell’attuale schiavitù, non solo rappresenta gli abissi incommensurabili dell’ipocrisia del politicamente corretto, ma costituisce un insulto estremo a coloro che soffrono in silenzio la loro schiavitù, morendo lentamente a causa degli abusi fisici, sessuali ed emotivi che sono costretti a sopportare. Se c’è qualcosa di “offensivo”, beh, è proprio questo.
Judith Bergman è avvocato, editorialista e analista politica. È Distinguished Senior Fellow presso il Gatestone Institute.