Rapporto dall’Ucraina: Perché combattono

Rapporto dall’Ucraina: Perché combattono

di Richard Kemp   11 giugno 2023

Pezzo in lingua originale inglese: Report from Ukraine: Why They Fight
Traduzioni di Angelita La Spada

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Le forze russe e i burocrati civili hanno prelevato quasi 20 mila bambini ucraini dagli orfanotrofi e dalle strutture di assistenza, allontanandoli dai loro genitori o prendendoli in “custodia” dopo aver ucciso le loro famiglie. Questa crudele deportazione è il motivo per cui gli ucraini combattono sul campo di battaglia, determinati a continuare ad attaccare, a tenere gli invasori lontani dalle porte delle loro famiglie. Nella foto: Un soldato ucraino a Bakhmut, in Ucraina, il 23 aprile 2023. (Foto di Anatolii Stepanov/AFP via Getty Images)

Questa settimana, mi sono intrattenuto vicino a Bakhmut, nell’Ucraina orientale, con ufficiali e soldati che combattono da mesi e mesi gli invasori russi in questa città oggi distrutta. Questa è da considerare una delle battaglie più lunghe al mondo dal 1945 e in assoluto la più brutale di questa guerra, con i russi e gli ucraini che spesso combattono a distanza ravvicinata, l’artiglieria che martella senza sosta la città ormai ridotta in macerie, come a Stalingrado, e un livello di massacri che non ha eguali altrove nella feroce guerra di Putin.

Parlando con questi uomini provati dalla battaglia, la loro gratitudine per le armi, le munizioni e per i mezzi militari forniti dall’Occidente, era palpabile e talvolta commossa. Ci hanno attribuito il merito di averli tenuti in vita e di averli aiutati a combattere. Ho chiesto di cosa avevano più bisogno dai nostri Paesi. Ovviamente di più armi, più munizioni, più carri armati, più razzi e più aerei da combattimento. Sono però rimasto colpito, seppur non sorpreso, da un’altra risposta coerente: “Per favore, non cercate di costringere il nostro Paese a fare la pace con gli invasori”.

Questo lo affermano uomini che hanno visto i loro compagni d’armi dilaniati da proiettili, da bombe esplose e da schegge di mortaio; uomini che hanno combattuto per impedire il riflusso della vita dai corpi straziati dei loro compagni; hanno sopportato i colpi stordenti di bombardamenti di artiglieria senza sosta e hanno rischiato la vita ogni ora trascorsa nella città in rovina. Ad un certo punto, convogli di ambulanze cariche che sfrecciavano davanti a noi, allontanandosi dall’area di battaglia, hanno esplicitato la realtà letale della vita a Bakhmut.

Con il loro rifiuto così deciso dei negoziati di pace, questi combattenti non contraddicono le parole profferite dal generale americano Douglas MacArthur nel suo famoso discorso “Dovere, Onore, Patria” pronunciato a West Point: “Il soldato prega più di tutti gli altri per la pace, perché è lui che deve patire e portare le ferite e le cicatrici più profonde della guerra”?

Non ho fatto loro questa domanda perché ho capito subito cosa si nascondeva dietro la loro ferma determinazione a continuare a combattere nonostante l’orrore di tutto ciò.

In precedenza, mi ero recato nella vicina Izyum, dove l’occupazione russa è contrassegnata non solo da scuole, ospedali, abitazioni e condomini distrutti e butterati da proiettili, ma anche da fosse poco profonde in mezzo ai boschi, ora vuote e ognuna segnata da ruvide croci di legno.

Dopo il ritiro delle truppe russe incalzate dalla controffensiva dell’esercito ucraino, lo scorso settembre, a Izyum, sono stati riesumati 447 corpi, per lo più di uomini civili, di donne e bambini, quasi tutti con segni di morte violenta, molti giustiziati, alcuni mutilati e qualcuno con le mani legate. La foresta circostante è costellata di “tank scrapes”, fossati scavati nel terreno sul quale si erano trincerati i mezzi blindati russi per fornire una maggiore protezione dal fuoco di artiglieria e da quello anticarro e per favorire l’occultamento da terra e dall’aria. Una di queste fosse conteneva i corpi di 17 soldati ucraini. Prima di coprirli con un velo di terra, i russi avevano posto delle mine sotto i cadaveri, con lo scopo di uccidere e mutilare coloro che avevano il compito di riesumare quei corpi.

Alcuni dei civili morti erano stati portati in quei boschi dalla città di Izyum e da Balakliia, a poche miglia di distanza. In entrambi luoghi, ho visitato stazioni di polizia con celle squallide e seminterrati bui dove i russi avevano stipato i loro prigionieri: uomini, donne e bambini, e li avevano terrorizzati, torturati, stuprati e uccisi.

Pochi giorni dopo, ho visto gli stessi luoghi funesti a Bucha, alle porte di Kyiv. Posti come questo si trovano in molte città e villaggi occupati dai russi. Ricordano orribilmente i centri di tortura e di sterminio nazisti che ho visitato in Polonia, in Francia e sull’isola di Alderney, nello Stretto della Manica. E proprio come i luoghi dell’orrore nazista, questi luoghi funesti meritano di essere preservati, per non scordare la malvagità degli aguzzini e come memoriale per le povere anime che hanno sofferto così terribilmente sotto il potere totalitario russo.

Dalle aree del Paese occupate dall’esercito di Putin con l’invasione del febbraio 2022, sono stati anche rapiti un gran numero di bambini ucraini, compresi i neonati. Il governo di Kyiv ha finora documentato 19.393 minori rapiti, e molto probabilmente ce ne sono molti altri non ancora identificati.

Alcuni di loro sono trattenuti in zone dell’Ucraina che l’esercito russo continua a occupare e altri sono stati trasferiti in territorio russo. Come le torture e le uccisioni dei civili a Izyum e altrove, e l’esecuzione sommaria di prigionieri di guerra, questi rapimenti sono crimini di guerra. È a causa di questi rapimenti di massa che a marzo la Corte Penale Internazionale dell’Aia ha emesso un mandato d’arresto per Vladimir Putin e per il suo cosiddetto commissario per i diritti dei bambini, Maria Lvova-Belova.

Le forze russe e i burocrati civili hanno prelevato quasi 20 mila bambini ucraini dagli orfanotrofi e dalle strutture di assistenza, allontanandoli dai loro genitori o prendendoli in “custodia” dopo aver ucciso le loro famiglie. Alcuni sono stati affidati o adottati con la forza in città come Mosca, San Pietroburgo e Rostov. I loro nomi e le date di nascita vengono talvolta modificati per renderli irrintracciabili. Questi minori che si pronunciano a favore della loro terra natia, cantano l’inno nazionale o parlano male di Putin vengono “rieducati” dalle autorità russe, e questo iter a cui vengono sottoposti include lunghi periodi di detenzione e isolamento, come pure intimidazioni e pestaggi selvaggi. Alcuni ragazzi sono stati arruolati in un esercito ad hoc russo dove vengono addestrati e preparati a combattere un giorno contro la loro stessa gente.

A Kyiv ho incontrato madri dagli occhi rossi di alcuni di questi bambini, e ognuna di loro sta passando l’inferno che non finirà mai finché i loro figli o le loro figlie non verranno loro restituiti. Il governo ucraino e la Ong Save Ukraine, così come i genitori che sono in grado di farlo, si stanno adoperando per rintracciare questi bambini, ma finora ne sono stati riportati a casa pochissimi. Se alle torture e alle uccisioni non si può più rimediare, non è così per il rapimento dei minori da parte della Russia, ed è inspiegabile il fatto che finora non ci sia stata indignazione internazionale su larga scala.

Il rapimento di questi bimbi ha echi grotteschi che rimandano al Terzo Reich, che portò via con la forza almeno 20 mila bambini polacchi dalle loro famiglie e li trasferì in Germania, lo stesso numero di bambini che sono stati finora rapiti da Putin. Molti di quei piccoli polacchi affrontarono un destino quasi identico a quello dei bimbi ucraini rapiti oggi.

Tornando ai difensori di Bakhmut, questa crudele deportazione è il motivo per cui gli ucraini combattono sul campo di battaglia, determinati a continuare ad attaccare, a tenere gli invasori lontani dalle porte delle loro famiglie, fino a quando non li respingeranno oltre i loro confini, quali che siano i rischi personali.

Il colonnello Richard Kemp è stato comandante delle forze britanniche. È stato anche a capo della squadra internazionale contro il terrorismo nell’Ufficio di Gabinetto del Regno Unito e ora è autore e conferenziere su questioni internazionali e militari. È Shillman Fellow presso il Gatestone Institute.