Proposta per un 8 marzo alternativo

𝐏𝐫𝐨𝐩𝐨𝐬𝐭𝐚 𝐩𝐞𝐫 𝐮𝐧 𝟖 𝐦𝐚𝐫𝐳𝐨 𝐚𝐥𝐭𝐞𝐫𝐧𝐚𝐭𝐢𝐯𝐨
Per la festa della donna vi propongo un itinerario alternativo rispetto ai soliti temi, solite rivendicazioni tardofemministe e antimaschili. Un viaggio fuori porta alla scoperta del pensiero forte delle donne nel secolo da cui proveniamo.

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Proposta per un 8 marzo alternativo
di Marcello Veneziani
09 Marzo 2024

Per la festa della donna vi propongo un itinerario alternativo rispetto ai soliti temi, solite rivendicazioni tardofemministe e antimaschili. Un viaggio fuori porta alla scoperta del pensiero forte delle donne nel secolo da cui proveniamo. Niente mimose, cortei e magnate per sole donne, ma qualcosa di più serio e meno labile. Partiamo da un incipit che è un pugno nello stomaco: “Le donne non hanno esistenza né essenza, esse non sono, esse sono nulla”. Con questo inesorabile viatico di Otto Weininger, il pensatore ebreo suicidatosi a ventitré anni nel 1903, ebbe inizio il ventesimo secolo. Erano parole tratte da Sesso e carattere, un’opera che ebbe grande successo, svariate ristampe e traduzioni, fra cui una anche in Italia a cura di Julius Evola. Figlia di Bachofen e di Schopenhauer, una letteratura ampia e misogina si scatenò nella cultura mitteleuropea del primo ‘900, in concomitanza con i primi segnali di femminismo e di emancipazione delle donne. Di quel clima resta vivida traccia, ad esempio, negli scritti di Karl Kraus, raccolti sotto il titolo di Morale e criminalità. Da un verso la cultura di estrazione eroico-militare, virile, che si riconosceva nella misoginia di Zarathustra (“Vai dalla donna? Non dimenticare la frusta”), dall’altra la convinzione di un’inferiorità ontologica e spirituale della donna, inducevano al disprezzo per la donna. Eppure il ‘900 che si apre con gli umori più misogini, riserva dal punto di vista filosofico le maggiori sorprese. Il riferimento non è tanto a quelle celebri donne che hanno frequentato la filosofia tramite i filosofi, vivendo cioè di gloria riflessa per i loro ménage intellettuali ed esistenziali. Tale fu il caso celebre di Lou-Andreas Salomè, anello di congiunzione vivente tra Nietzsche, Rilke e Freud. O il caso di Simone de Beauvoir, che ha lasciato sì scritti notevoli, ma pur sempre brilla di luce riflessa per il suo sodalizio con Sartre. Ci riferiamo invece a quelle donne che hanno lasciato un’orma importante, seppure a lungo sottovalutata, nel pensiero del Novecento.

Sulle donne vigeva un impronunciato interdetto, un’inibizione implicita a varcare la soglia della filosofia. E’ la maledizione d’Ipazia, dal nome della più famosa capostipite nell’antichità che morì ammazzata. Le filosofe (si dice così?) che abitarono il Novecento cercarono la metafisica e il chiarore, il sacro e la trascendenza, a volte perfino la mistica, l’estasi e la santità. Figure delicate eppure forti, pervase di purezza, vogliose d’assoluto e cercatrici di luce. Parlo di Simone Weil, l’intelligenza metafisica più pura ed acuta del Novecento, ma anche di Marìa Zambrano, allieva di Ortega y Gasset ma rapita da Heidegger; di Vittoria Guerrini alias Cristina Campo – che propriamente filosofa non può definirsi; di Hannah Arendt, che fu tra le più grandi pensatrici non solo etico-politiche del secolo ma anche esistenziali; di Edith Stein e di Etty Hillesum, ebree come Simone Weil e Hannah Arendt, morte nei campi di sterminio; per certi versi di Marguerite Yourcenar, che alla sensibilità storico-letteraria unì una passione filosofico-alchemica e un’amore per la tradizione. E non mi addentro tra le poetesse pervase di pensiero metafisico, come Anna Achmatova, Marina Cvetaeva o Antonia Pozzi. O tra le studiose del sacro e del paganesimo come Marie Reimschneider o della “luce del Medioevo” come Régine Pernoud.

Di fronte al declinare della filosofia al maschile, il pensiero forte è stato rappresentato soprattutto da loro, le donne, pur considerate quasi straniere nei territori della filosofia, senza permesso di soggiorno. Dopo il ’45 la filosofia al maschile non si riprese dal cortocircuito della catastrofe storica, dalla disfatta dell’idealismo e poi del materialismo storico e dall’annuncio heideggeriano di fine del pensiero occidentale; elaborava solo pensieri deboli, negativi e autocritici, filosofie analitiche del linguaggio e della scienza, pensieri che destrutturavano la filosofia e la sua tradizioni, raccontavano la fine dei saperi e dei racconti globali, comunicavano la propria incomunicabilità o il proprio tacere, dichiaravano il proprio decesso o suicidio a vantaggio della praxis, prima rivoluzionaria e comunista, poi consumista e neocapitalista. Di fronte a questa emorragìa della filosofia, furono le donne come Simone Weil a riproporre il problema della verità e di Dio, dell’essere e dell’assenza. O come Marìa Zambrano, a ripensare alla metafisica della luce e alla necessità di un pensiero aurorale, luogo d’incontro tra poesia e filosofia. O come Edith Stein, a passare dalla filosofia alla fede religiosa, dall’ebraismo alla conversione cristiana, assumendo da carmelitana in clausura il nome di Teresa Benedetta della Croce. O come Hannah Arendt, che non solo analizzava le origini del totalitarismo e la banalità del male, ma si addentrava anche nella vita della mente, riproponendo l’esigenza di un primato del conoscere sull’agire, della contemplazione sulla prassi. Col pensiero femminile torna nel Novecento Platone, e con lui Pitagora, il pensiero dell’immortalità dell’anima e l’orizzonte della trascendenza, la metafisica e la riflessione filosofica sulla religione e sul divino, sull’amor fati e sul sacro. L’espressione più alta e più pura di questa linea metafisica fu espressa in Italia da Cristina Campo, letterata traduttrice e poetessa, studiosa di saperi tradizionali più che logico-analitici. Lo splendore chiaro e denso dei suoi pensieri, la ricerca di Dio con un’attenzione spirituale e una grazia che sembrano provenire da altri mondi. La sua tensione verso la perfezione che costa “vigilie notturne, duri mattutini, voti di castità, obbedienza e povertà”, il suo “distacco quasi totale dai beni di questa terra, la costante disposizione a rinunciarvi se si posseggono, un’ovvia indifferenza alla morte, profonda riverenza alle forme impalpabili, ardimentose, indicibilmente preziose”… Cristina Campo esprime una linea scandalosamente divergente dal suo tempo, e dal nostro. “Il mondo d’oggi –scrive in una lettera a Mita- ha un fiuto infallibile nel tentar di schiacciare ciò che è inimitabile, inesplicabile, irripetibile, tutto ciò che non gli può somigliare”. Il pensiero forte salvato dalle donne; pensate a loro per fondare su basi serie un sobrio orgoglio femminile.

La Verità – 8 marzo 2024