Pinochet non torna e neppure Allende

Pinochet non torna e neppure Allende
(Il Mattino 21 ottobre 2019) di Carmine Pinto

Pinochet non tornerà e neppure Allende. Gli intellettuali e i militanti europei che si identificano con le passioni di gioventù, si illudono. La Guerra fredda è finita. Le uniche dittature nel continente sono quelle socialiste para-marxiste di Cuba e Venezuela. In tutti gli altri paesi, il ruolo politico dei militari è largamente integrato nelle logiche istituzionali. Il Cile non fa eccezione. Inoltre, dagli anni Ottanta è diventato lo stato più ricco e stabile del Sud America. Ha conosciuto un processo di crescita fino a diventare, nel 2012, il paese con il PIL più elevato tra i paesi latino-americani.
Oggi ha un’inflazione insignificante e il tasso di crescita è superiore al 3%. Ovviamente nel paese non mancano problemi: i bassi redditi di una parte della popolazione, con le discussioni permanenti in America su sanità, istruzione pubblica e sul fragile sistema pensionistico. Eppure, ha banche ed imprese consolidate, un debito pubblico limitato e a basso rischio, soprattutto un sistema politico che farebbe invidia a molti europei. Negli ultimi decenni la presidenza nazionale ha registrato un’alternanza perfetta tra centro destra e centro sinistra, liberal-conservatori e socialdemocratici, senza nessuna radicalizzazione del sistema.
Insomma, non c’è nessuna lotta tra ricchi e poveri, figurarsi i ritorni di militari o guerriglieri, ma una dialettica connessa ai problemi dell’America latina contemporanea. Una dinamica che in Cile ora si muove su un intenso crinale interno-esterno al paese e alle leadership concorrenti del presidente in carica e dell’ex presidente, la socialdemocratica Michelle Bachelet. Il primo, Miguel Juan Sebastián Piñera Echenique, formatosi nella Democrazia Cristiana cilena e nelle università cattoliche, è una tipica espressione di élite latine di cultura internazionale (tra gli avi rivendica spagnoli, indipendentisti e addirittura l’ultimo imperatore Inca).
Il presidente è uno degli imprenditori più ricchi del paese e i suoi interessi vanno dal calcio alle linee aeree. Si è alternato alla presidenza con la rivale Bachelet, mantenendo una coalizione di centro-destra tutt’altro che docile ed omogenea, con la Dc fuori gioco. Un politico di lungo corso quindi, capace di superare polemiche e sconfitte, e anche in questo simile alla leader socialista. Entrambi decisi e mediatori, come i nostri della Prima repubblica.
Con la sua seconda presidenza ha iniziato una serie di privatizzazioni e di integrazioni tariffarie, come l’aumento del biglietto della metro che ha dato il via alle manifestazioni. In realtà sono misure limitatissime (in questo caso di pochi centesimi di dollaro) e vicine al macronismo. Ma sono state funzionali a mobilitare una ondata legata all’antipolitica e capace di tirare furori rancori vecchi e nuovi della società cilena. Niente di nuovo, se non fossero questioni internazionali che in America sono connessi, più che in Europa, alle questioni interne. Fantasmi che si sono intrecciati con le proteste, mostrando un volto minaccioso e violento che non si vedeva da decenni e sorprendendo tanto Piñera quanto i suoi oppositori socialdemocratici.
Il tema caldo è il gruppo di Lima, l’inedito fronte creato dalle forze liberal-democratiche del continente, di cui Piñera è tra i protagonisti insieme ai presidenti del Canada Trudeau, del Paraguay Benitez e della Colombia Santos. Si sono uniti per isolare la dittatura venezuelana, considerando il castro-chavismo, le sue relazioni con il narcotraffico e le autocrazie asiatiche, una minaccia assoluta. Piñera non si è fermato. Pochi mesi fa ha fondato un’alleanza con una decina di governi (il Prosur) di cui è presidente, con l’obiettivo di moltiplicare l’integrazione economica, alternativo al Foro di Sao Paolo, il fronte delle sinistre radicale latine diretto dagli uomini di Castro e di Lula.
Piñera è diventato così l’obiettivo principale del neo-costituito gruppo di Puebla. A luglio nella città messicana si sono riuniti una trentina di dirigenti della sinistra continentale, con la regia cubana e la timida copertura del presidente mexicano Obrador (in crisi come mai per la sua disastrosa gestione della guerra al narcotraffico). Obiettivi dichiarati: difendere il regime di Maduro e mettere in crisi il gruppo di Lima. Tre mesi dopo, con incredibile coordinamento, manifestazioni e assalti si sono susseguiti da Bogotà a Lima e a Santiago, con linee e motivazioni diverse, ma con la presenza di gruppetti radicali omogenei. Piñera è stato sorpreso, non ha l’impatto mediatico o dirompente del presidente brasiliano, ma ha capito che bisognava adattarsi al momento, avvantaggiato dalla sua avversaria Bachelet, che aveva appena finito di condannare il regime chavista per le feroci violazioni di diritti umani (mentre socialisti e conservatori vengono accomunati dal messaggio contro la “casta” cilena). Piñera ha dato ordine all’esercito di fronteggiare i violenti (un messaggio però diretto ai suoi nemici di Puebla) e ha iniziato a trattare con i manifestanti più numerosi, ritirando l’aumento tariffario (un messaggio agli avversari interni). La partita non è chiusa e il Cile ora si trova la sfida continentale anche in casa, ma i tempi di Allende e Pinochet sono finiti, per sempre.

 

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