𝐏𝐞𝐫 𝐮𝐧 𝐩𝐚𝐭𝐫𝐢𝐨𝐭𝐭𝐢𝐬𝐦𝐨 𝐞𝐮𝐫𝐨𝐩𝐞𝐨
Leggi l’intervista a cura di Mario De Fazio per Fare Patria
Per un patriottismo europeo
di Marcello Veneziani
20 Giugno 2023
Intervista a cura di Mario De Fazio per Fare Patria
«C’è l’urgenza di un nuovo patriottismo europeo». Per Marcello Veneziani – saggista, intellettuale e filosofo – la necessità di riscoprire un comune destino europeo passa da una concezione dell’identità che «non è un blocco di marmo, ma un principio vitale e dinamico che si allarga per cerchi concentrici». Dal patriottismo locale a quello nazionale, fino a quello comunitario, perché ognuno di questi «è incluso dentro l’altro, c’è continuità e non rottura: anzi, l’uno garantisce l’altro». Ma per ricostruire un’aspirazione europea, secondo l’autore di La Cappa e Scontenti, va superata l’attuale architettura istituzionale dell’Unione europea, che dev’essere pensata come «una confederazione di Stati sovrani, di patrie, e non come un gradino verso la globalizzazione e una periferia subalterna rispetto agli Stati Uniti e la Nato». In quest’ottica, e in vista delle elezioni europee del prossimo anno, il possibile asse tra popolari e conservatori è una prospettiva a cui Veneziani guarda come a «un progetto interessante: non sarebbe la radicale mutazione che preferiremmo, ma quantomeno un realistico riequilibrio rispetto alla Cappa di uniformità sotto cui viviamo».
Veneziani, l’attenzione al tema dell’Europa è sempre stata presente in diverse declinazioni della destra politica italiana. Negli scorsi anni però, la distanza percepita dal popolo rispetto alle scelte e alle imposizioni dell’Unione europea ha spinto la destra a venare di posizioni populiste il proprio atteggiamento nei confronti di tale argomento. Oggi alcuni elementi contingenti hanno mutato il quadro, e la destra è arrivata al governo: c’è spazio per riscoprire un nuovo patriottismo europeo?
«Da tempo sostengo l’urgenza di un nuovo patriottismo europeo, anzi mi sono spinto anni fa a vagheggiare un sovranismo europeo. Mi rendo conto che un’istanza di questo tipo è davvero stridente con le forze e gli assetti che costituiscono oggi l’Unione Europea, col rifiuto delle radici comuni e la visione rovesciata dell’Europa, non come una confederazione di Stati sovrani, di patrie, ma come un gradino verso la globalizzazione e una perlifera subalterna rispetto agli Stati Uniti e la Nato».
Per declinare un nuovo patriottismo può essere utile rifarsi al concetto di identità? Così come ci si sente toscani, italiani ed europei, con differenti gradi d’intensità, si può essere contemporaneamente patriottici sul versante locale, nazionale e continentale?
«Ma certo. L’identità non è un blocco di marmo e non si riferisce solo a un contesto, ma è un principio vitale e dunque dinamico che si allarga per cerchi concentrici dalle identità personali a quelle famigliari, a quelle cittadine e locali, a quelle regionali e nazionali, fino alla civiltà europea. Un patriottismo è incluso dentro l’altro, c’è continuità e non rottura: anzi, l’uno garantisce l’altro».
In un’epoca di pervasivo individualismo in cui prevale – per citare uno dei suoi ultimi lavori, l’essere “scontenti” – come si possono educare le giovani generazioni all’amor di patria e alla riscoperta delle comuni radici europee? C’è bisogno di nuovi modelli educativi che vadano oltre la semplice retorica della generazione Erasmus?
«Di più, sarebbe necessaria una rivoluzione culturale o quanto meno una grande riforma culturale e civile, che punti sull’educazione, la tradizione e la formazione, e che segni un salto di paradigma dall’individualismo alla comunità. Per farlo bisogna “connettersi”, cioè sentirsi legati e collegati da una storia, un’origine, una comunanza e un destino».
Per costruire una narrazione identitaria sul patriottismo – nazionale o europeo – c’è ancora bisogno di miti fondanti? Quali sono quelli che potrebbero risvegliare la consapevolezza di un destino comune nei popoli europei?
«Nessuna civiltà è possibile senza riconoscere miti di fondazione e conseguente racconto d’identità. Ma l’istanza, in linea di principio ineccepibile e urgente, poi s’infrange se si pensa che non ci sono “narratori” nel cinema, nell’arte, nella musica, nella storia, nella cultura che rendano comune, popolare e universale questo amor patrio europeo e questa rappresentazione di miti fondatori. Perché il tema non si risolve in una petizione ideologica ma deve diventare un movimento trasversale tra le arti, la comunicazione, la cultura e lo spettacolo».
Dinanzi ai tentativi di arrivare a una reale federazione di popoli europei, spesso si obietta citando una serie di ostacoli pratici: l’assenza di una lingua comune, le diverse esigenze (spesso incompatibili tra loro) delle nazioni, la necessaria tutela delle peculiarità locali dei popoli. Come si superano questi impedimenti?
«Non bisogna mai forzare le tappe e opporsi alla realtà. Già grandi imperi del passato parlavano lingue diverse e a volte avevano religioni diverse: ogni federazione si gioca sulla dialettica tra unità e differenza, garantendo sia il versante dei motivi comuni che quello delle specificità. L’idea stessa di confederazione può puntare in prospettiva a un bilinguismo, e comunque a una doppia cittadinanza, ma senza mai negare o cancellare lingue, identità e caratteri dei popoli federati».
In vista delle prossime elezioni europee, esiste la possibilità di costituire un blocco tra popolari e conservatori che ribalti l’asse tra Ppe e socialisti su cui si sono rette finora le istituzioni europee? È uno scenario a cui guarda con interesse?
«Si, penso che nelle condizioni in cui siamo possa essere un progetto interessante, costruttivo, che offre all’Europa il ritorno a una dimensione politica e dunque, inevitabilmente, dialetticamente conflittuale. Non sarebbe una radicale mutazione, come invece noi preferiremmo, ma sarebbe quantomeno un realistico riequilibrio rispetto alla Cappa di uniformità sotto cui viviamo».
Nietzsche scriveva che «l’Europa si farà solo sull’orlo della tomba». Per ricostruire una diversa Unione europea è necessario che sia superata o riformata l’attuale architettura istituzionale?
«Sono necessari cambiamenti su vari piani. Uno certo riguarda l’architettura istituzionale, ma poi ci sono gli assetti tecno-burocratici, il ruolo della cultura e delle tradizioni, la sovranità politica e popolare. E soprattutto il rovesciamento della concezione europea, intesa non come un gradino verso la globalizzazione o una periferia di altri contesti, come quello atlantico, ma un soggetto sovrano in grado di rispondere alla globalizzazione, con una sua politica estera, un suo governo politico espresso dai popoli, una sua risposta unitaria ai flussi migratori, ai temi ambientali, al commercio e alla concorrenza mondiale, un suo esercito. L’Europa oggi è vessatoria al suo interno e verso i suoi cittadini e inerme e del tutto incapace di risponde a tutto ciò che proviene dal mondo esterno: bisognerebbe immaginarla a rovescio, più libera al suo interno, rispetto alle differenze nazionali e locali, e più coesa all’esterno, in grado di tutelare l’Europa, farla valere nei contesti internazionali, rispondere alle minacce esterne».