La “morte lenta” dei palestinesi in Libano
di Khaled Abu Toameh
24 luglio 2019
Pezzo in lingua originale inglese: The ‘Slow Death’ of Palestinians in Lebanon
Traduzioni di Angelita La Spada
Le misure prese dalle autorità libanesi nei confronti dei palestinesi evidenziano ancora una volta le discriminazioni subite dai palestinesi in questo paese arabo. “I palestinesi in Libano”, secondo un report del 2017 dell’Associated Press, “sono vittime di discriminazioni in quasi ogni ambito della vita quotidiana…”. La legge libanese limita le capacità dei palestinesi di svolgere diverse professioni, tra cui quelle di medico, avvocato e ingegnere, e impedisce loro di ricevere prestazioni sociali. Nel 2001, il parlamento libanese ha approvato inoltre una legge che vieta ai palestinesi di acquisire giuridicamente proprietà immobiliari.
Eppure, in qualche modo, i provvedimenti discriminatori e razzisti adottati dal Libano nei confronti dei palestinesi non sembrano disturbare i gruppi pro-palestinesi in tutto il mondo. Questi gruppi fingono regolarmente di non vedere le sofferenze dei palestinesi che vivono nei paesi arabi. Piuttosto, focalizzano la loro attenzione su Israele, osservandolo e criticandolo per abusi immaginari contro i palestinesi.
È ora che i gruppi pro-palestinesi presenti nei campus universitari di Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna e Australia organizzino una “settimana dell’apartheid araba” anziché accusare Israele di “discriminare” i palestinesi. È anche tempo che i media internazionali prendano atto che le misure antipalestinesi sono state adottate dal Libano in un momento in cui Israele incrementa il numero dei palestinesi autorizzati a entrare in Israele per lavoro.
In qualche modo, i provvedimenti discriminatori e razzisti adottati dal Libano nei confronti dei palestinesi non sembrano disturbare i gruppi pro-palestinesi in tutto il mondo. Questi gruppi fingono regolarmente di non vedere le sofferenze dei palestinesi che vivono nei paesi arabi. Piuttosto, focalizzano la loro attenzione su Israele, osservandolo e criticandolo per abusi immaginari contro i palestinesi. Nella foto: Burj Barajneh, un campo profughi palestinese situato in Libano e amministrato dall’UNRWA. (Fonte dell’immagine: Al Jazeera English/Flickr CC BY-SA 2.0)
Più di centomila palestinesi cisgiordani sono autorizzati a lavorare in Israele, secondo fonti palestinesi e israeliane. Inoltre, le fonti riferiscono che migliaia di palestinesi entrano ogni giorno in Israele senza permessi.
Il 15 luglio, il numero dei lavoratori palestinesi che sono entrati in Israele, secondo il ministero della Difesa israeliano, ammontava a più di 80 mila.
La scorsa settimana, nell’ambito dei tentativi di raggiungere un accordo di tregua tra Israele e Hamas, secondo quanto riportato, Israele avrebbe deciso di incrementare il numero dei commercianti e degli imprenditori palestinesi della Striscia di Gaza autorizzati a entrare in Israele, portandolo da 3.500 a 5.000.
I media riferiscono che l’ultimo gesto israeliano è stato il risultato di tentativi compiuti dall’Egitto e dalle Nazioni Unite di impedire un confronto militare a tutto campo tra Israele e Hamas.
Mentre Israele aumenta costantemente il numero dei permessi di lavoro per i palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, il Libano, al contrario, ha avviato un giro di vite senza precedenti sui lavoratori stranieri irregolari, compresi i palestinesi, innescando così un’ondata di proteste tra i palestinesi residenti lì.
Le autorità libanesi affermano che la repressione nei confronti dei lavoratori stranieri illegali è rivolta principalmente contro i siriani fuggiti in Libano dopo l’inizio della guerra civile in Siria, nel 2011. Nell’ambito di questa campagna contro i lavoratori irregolari, molte imprese sono state chiuse e molti lavoratori palestinesi e siriani sono stati licenziati.
Il ministro libanese del Lavoro Kamil Abu Sulieman ha smentito le accuse secondo cui la campagna sarebbe stata organizzata come una “cospirazione” contro i 450 mila palestinesi presenti nel suo paese. “Il piano per contrastare il lavoro nero è stato realizzato diversi mesi fa e non riguarda i palestinesi”, ha dichiarato Abu Sulieman. “In Libano, esiste una legge sul lavoro, e noi dobbiamo decidere di applicarla. Abbiamo dato un preavviso di sei mesi a tutti i lavoratori e alle imprese irregolari per chiedere i permessi necessari”.
Il ministro libanese ha ammesso, tuttavia, che a seguito della campagna contro i lavoratori illegali, alcune attività palestinesi sono state chiuse.
I palestinesi hanno respinto le affermazioni del ministro. Hanno invece avviato una serie di proteste in diverse parti del Libano contro il giro di vite nei confronti dei lavoratori stranieri irregolari. I manifestanti hanno bruciato pneumatici all’ingresso di un certo numero di campi profughi, e alcuni funzionari e fazioni palestinesi, stigmatizzando la campagna, hanno chiesto alle autorità libanesi di sospendere le misure prese contro gli imprenditori e i lavoratori palestinesi.
“I provvedimenti libanesi danneggiano i palestinesi”, ha dichiarato Ali Faisal, membro del Fronte democratico per la liberazione della Palestina (FDLP). Faisal ha esortato le autorità libanesi a revocare le loro misure contro i palestinesi e ha rilevato che il contributo palestinese alla crescita economica è stimato all’11 per cento. Il funzionario del FDLP ha altresì osservato che, “con vari pretesti”, ai palestinesi che vivono in Libano è stato legalmente precluso di svolgere diverse professioni.
La legge libanese limita le capacità dei palestinesi di svolgere diverse professioni, tra cui quelle di medico, avvocato e ingegnere, e impedisce loro di ricevere prestazioni sociali. Nel 2001, il parlamento libanese ha approvato inoltre una legge che vieta ai palestinesi di acquisire giuridicamente proprietà immobiliari.
Secondo quanto riportato nei media arabi, le proteste palestinesi potrebbero segnare l’inizio di una “Intifada” [sollevazione] palestinese contro il Libano. I media affermano che ad ogni modo i palestinesi hanno difficoltà a ottenere permessi di lavoro dalle autorità libanesi.
“Il tasso di disoccupazione tra i palestinesi in Libano è molto alto”, ha detto l’imprenditore palestinese Ziad Aref. “Abbiamo il diritto di adoperarci per risolvere questo problema. La nuova campagna delle autorità libanesi lascerà senza lavoro migliaia di palestinesi e aggraverà la crisi finanziaria”.
Secondo Aref, il tasso di disoccupazione tra i palestinesi in Libano è stimato al 56 per cento. Aref ha inoltre ammonito i leader palestinesi per non essersi occupati delle difficoltà dei lavoratori e degli imprenditori palestinesi presenti in Libano.
I leader palestinesi in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e in Libano dicono di essere quotidianamente in contatto con le autorità palestinesi, nel tentativo di porre fine alla repressione perpetrata contro i lavoratori palestinesi.
Azzam al-Ahmed, un alto funzionario dell’OLP che è responsabile del “portfolio palestinese” in Libano, ha espresso profonda preoccupazione per la campagna libanese contro i lavoratori stranieri irregolari. Ha asserito di aver contattato diversi funzionari libanesi per ammonirli di non ledere alcun palestinese.
Hamas, da parte sua, ha accusato le autorità libanesi di esercitare una politica di “morte lenta” contro i palestinesi in Libano. Hamas ha detto in una dichiarazione che la campagna libanese contro i lavoratori e le imprese irregolari sembra far parte di una “cospirazione per liquidare i diritti dei profughi palestinesi. Non accetteremo alcuna minaccia alla vita e al futuro dei profughi palestinesi in Libano e contrasteremo la politica della morte lenta”.
Le misure prese dalle autorità nei confronti dei palestinesi evidenziano ancora una volta le discriminazioni subite dai palestinesi in questo paese arabo. “I palestinesi in Libano”, secondo un report del 2017 dell’Associated Press, “sono vittime di discriminazioni in quasi ogni ambito della vita quotidiana. (…) Molti vivono in insediamenti riconosciuti ufficialmente come campi profughi, ma meglio descritti come veri e propri ghetti circondati da posti di blocco e, in alcuni casi, cinti da muri e da filo spinato”.
“La discriminazione e l’emarginazione subita [dai palestinesi] sono aggravate dalle restrizioni cui devono far fronte nel mercato del lavoro e che contribuiscono a creare livelli elevati di disoccupazione, bassi salari e pessime condizioni di lavoro”, secondo un rapporto delle Nazioni Unite. “Fino al 2005, ai palestinesi erano state precluse più di 70 professioni – e ancora oggi ne sono loro vietate una ventina. La povertà risultante è esacerbata dalle restrizioni imposte al loro accesso all’istruzione pubblica e ai servizi sociali”.
Eppure, in qualche modo, i provvedimenti discriminatori e razzisti adottati dal Libano nei confronti dei palestinesi non sembrano disturbare i gruppi pro-palestinesi in tutto il mondo. Questi gruppi fingono regolarmente di non vedere le sofferenze dei palestinesi che vivono nei paesi arabi. Piuttosto, focalizzano la loro attenzione su Israele, osservandolo e criticandolo per abusi immaginari contro i palestinesi.
È ora che i gruppi pro-palestinesi presenti nei campus universitari di Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna e Australia organizzino una “settimana dell’apartheid araba” anziché accusare Israele di “discriminare” i palestinesi. È anche tempo che i media internazionali prendano atto che le misure antipalestinesi sono state adottate dal Libano in un momento in cui Israele incrementa il numero dei palestinesi autorizzati a entrare in Israele per lavoro.
Chi risponderà alle seguenti domande: Perché le Nazioni Unite e altre istituzioni internazionali restano in silenzio quando i palestinesi vengono cacciati dal lavoro in un paese arabo, mentre più di centomila palestinesi entrano quotidianamente in Israele per lavoro? Assisteremo a una riunione di emergenza della Lega Araba o del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per denunciare l’apartheid libanese e il razzismo? Oppure sono troppo impegnati a redigere risoluzioni di condanna nei confronti di Israele, che ha aperto le sue porte ai lavoratori palestinesi?
Khaled Abu Toameh è un pluripremiato giornalista che vive a Gerusalemme. È Shillman Journalism Fellow al Gatestone Institute.