𝐏𝐚𝐝𝐫𝐞 𝐏𝐢𝐨, 𝐢𝐥 𝐦𝐢𝐬𝐭𝐞𝐫𝐨 𝐝𝐞𝐥 𝐬𝐚𝐧𝐭𝐨 𝐢𝐠𝐧𝐨𝐫𝐚𝐧𝐭𝐞
Padre Pio, caro Papini, è un cappuccino ignorante, molto meridionalmente grosso
Padre Pio, il mistero del santo ignorante
“Padre Pio, caro Papini, è un cappuccino ignorante, molto meridionalmente grosso: e tuttavia (badi che oltre a confessarmi ho mangiato con lui e con lui mi sono trattenuto molto) ha con sé e in sé quel Dio tremendo che noi intravediamo in fantasia, e lui nell’anima caldissima insostenibilmente e nella carne che ne trema sempre, piagata ora più ora meno, gemendo atrocemente. Proprio ho veduto che cosa sia il santo, non dell’azione ma della passione: che patisce Iddio”.
Così scriveva don Giuseppe De Luca a Giovanni Papini. Padre Pio, un santo ben prima che la Chiesa sancisse la sua santità. Nell’anniversario della sua scomparsa, il 23 settembre del ’68, lo ricordiamo da una prospettiva insolita, come fu visto da alcuni uomini straordinari che lo incontrarono.
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In un rigido giorno d’inverno del dopoguerra, un uomo venuto da lontano, una specie di eremita colto che viveva d’elemosina a Mondovì e che i giudici definivano “molto strano”, dopo un lungo viaggio in treno e a piedi, nel disagio e nel gelo, arriva a S. Giovanni Rotondo per inginocchiarsi davanti a Padre Pio. Quell’uomo ha una storia misteriosa alle sue spalle: nato anche lui nel Sannio, come Padre Pio, visse con gli arabi, dove fu iniziato all’Islam, ha praticato la magia e l’occultismo, ha coltivato studi esoterici, ha frequentato Evola e Guénon, che lo stimava molto e s’interessò tramite lui alla figura di Padre Pio, ha fatto parte del Gruppo “magico” di Ur e ha scritto sulla Tradizione sacra romana e su Dante esoterico. Poi si è ritirato tra le montagne piemontesi, in una canonica abbandonata, si è dedicato alla dottrina cattolica cercando di conciliare Cristo e i Veda. Anima ardente, ribelle antimoderno e passionale, parte per il suo pellegrinaggio verso “il magnifico e tragico Sud”, come egli scrive nel diario di quel viaggio, e alla stazione di Milano incontra la sagoma del frate che cerca: “gli occhi di dentro scorgono il profilo di un frate, in un’onda di santità” (Ciò che mormora il vento del Gargano, edito da Archè). Poi il presagio si fa realtà, giungendo sul Gargano raggiunge Padre Pio, segue la sua messa, lo avvicina, gli bacia i polsi. Lo trova stanco in viso, come “chi ha lasciato l’alto per scendere verso gli uomini”. La sapienza di un iniziato s’inchina alla santità di un frate burbero. Dieci anni dopo, in quello stesso giorno, il 27 dicembre, Guido de Giorgio, questo il suo nome, morirà. Il mistero di un frate rustico e medievale che conquistò cuori semplici e menti complesse.
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Il cattolico fiorentino Attilio Mordini, teologo e mitologo della Tradizione, andò a trovare Padre Pio a S. Giovanni Rotondo nel settembre del ’54. Cadde in ginocchio sulla “povera scala di pietra” al passaggio del santo; ricorda “la sua mano sulla mia testa a benedirla, leggera”. Del suo pellegrinaggio garganico scrive nel suo quaderno I passi dell’acqua, raccolto nelle sue pagine francescane di Povertà regale (ed. Cantagalli). Mordini ricorda la sua “eleganza morbida e potente, d’un umile fierezza dai tocchi pieni e serafici”. Il suo lungo collo bianco, “i suoi lineamenti ricordano l’uomo rozzo, ma l’espressione li trasforma in bellezza forte e composta. Quando parla la sua voce è uno scalpello…le sue labbra non sembrano nemmeno sfiorarsi e lasciano intravedere la lingua fragrante di eucarestia. Ha gli occhi ombreggiati di folte sopracciglia e la luce delle pupille nere è fonda come la grazia di Dio”. Poi: “Stamani l’ho guardato attentamente…le sue carni si sono fatte quasi luminose e l’espressione del viso era quella di un morto felice, assunto alla pace di Dio”. E “l’acerba grazia del suo accento meridionale, il “Domine non sum dignus” detto con umile convinzione… Mai nessun predicatore rese tanto profondo l’abisso dei nostri peccati quanto le quattro semplici parole latine sulle labbra di questo santo”. Mordini rimase pensieroso per tutto il viaggio di ritorno, testimonia Arnaldo Pini che era con lui, “dal colloquio era tornato con gli occhi rossi di pianto” e quando gli aveva posto la mano sulla testa “gli disse sottovoce qualcosa sui suoi anni a venire, qualcosa che lo aveva turbato”. L’anno dopo Mordini sofferente andò a Lourdes.
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Cristina Campo citava spesso Padre Pio nelle sue lettere. In una missiva a Djuna Barnes lo paragonava a un monaco bizantino: «Uno staretz taumaturgico e stigmatizzato con il dono della profezia». Presumibilmente fu lei a proporre a Elémire Zolla lo scritto del frate pubblicato sulla rivista «Conoscenza religiosa», nel numero 1 del 1970. Tratto da fogli sparsi di una lettera di Padre Pio a un devoto, fu titolato Breve trattato sulla notte oscura; in una nota Zolla lo presentava come “l’ultimo taumaturgo e mistico cristiano”, aggiungendo: “È mancata la forza di un Dostoevskij a cogliere qualcosa della straordinaria ‘discesa del divino’ nell’umano cui si assistette per decenni in un villaggio di Puglia». Zolla non entra in questioni teologiche o sulla santità ma lo paragona a san Giovanni della Croce, e scrive: «la descrizione della purgazione sensibile e intellettuale è un pezzo classico di teologia mistica». Poi in un’intervista titolata Il mistico venuto dal Seicento, uscita nel volume Lacrime e sangue, Zolla raccontò del saggio di Padre Pio da lui pubblicato “mi parve meraviglioso. Era scritto alla maniera dei grandi mistici del Seicento […]. Ci sono passi impenetrabili a una mente comune, espressioni per indicare gli stati mistici, quasi ineffabili. Tutti i profeti erano utilizzati in modo perfetto da questo monaco semplicissimo, pressoché analfabeta. Usava alcune espressioni per indicare le modificazioni della psiche che avvengono a un grado molto assottigliato di allenamento. Mi parve un vero capolavoro”. La santità colmò di sapienza l’ignoranza di un povero frate del profondo, antico sud.
MV, La Verità (22 settembre 2021)