Nostalgico non vuol dire cattivo: liberiamoci del politicallycorrect
Di Daniele Ceccarini 21/06/2020
Chi ha nostalgia degli Dei antichi? Verrebbe da dire nessuno, oggigiorno. E invece tornare alle origine farebbe bene. Non per asciugarsi le lacrime, ma per aprire gli occhi sul presente.
Sputnik Italia intervista il filosofo Marcello Veneziani, autore del libro «Nostalgia degli Dei». Una chiacchierata che stimola il pensiero in una lunga domenica d’estate e ci porta a capire chi siamo diventati, volendoci disfare a tutti i costi del passato senza capire che l’uomo nostalgico non è un individuo da compatire, ma un ideale traghettatore per superare i flutti di questa attualità tormentata.
— Cosa significa nel XXI secolo parlare di “Nostalgia degli dei”?
— La categoria della “nostalgia” non rischia di condurci a un ripiegamento reazionario? La nostalgia del tempo perduto è un sentimento tenero e struggente che fa bene al cuore, che può valere nella casa degli affetti, e può ispirare grandi opere di poesia, d’arte, di letteratura. Ma la nostalgia a cui mi riferisco in Nostalgia degli dei, non esprime il rimpianto per il passato ma l’amore per l’origine, la vocazione per l’Inizio. Non è dunque un passato da rimpiangere e da restaurare, ma un principio che è dentro di noi a cui risalire per rigenerare la nostra vita e il nostro pensiero.
© Sputnik . Yuryi Abramochkin
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— Gli “dei” di cui parla sono le dieci parole chiave del libro?
— Sì, gli dei sono in questo caso metafore per riferirsi a dieci principi essenziali che fondano la nostra vita, senza dei quali non avrebbe senso e destino: cosa resta di un uomo e della sua umanità se lo privi della civiltà, della tradizione, della patria, della famiglia, del destino, della comunità, dell’anima, del Mito, del Ritorno, del divino? Poco e niente, resta un consumatore, un utente, un automa… Non certo un uomo, con la sua storia, il suo spirito, i suoi legami. Gli dei sono i principi intramontabili di cui abbiamo bisogno noi esseri che tramontiamo.
— Ha scritto un altro libro dal titolo “Dio, patria e famiglia”. In occasione dell’8 marzo, la senatrice Monica Cirinnà del Pd si è fatta ritrarre con un cartello che contestava questi valori. Cosa ci dice questo della crisi della sinistra?
Giuseppe Conte (foto d’archivio)
© Foto : CC-BY-NC-SA 3.0 IT / Filippo Attili
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— Le forme storiche del senso religioso, patriottico e famigliare possono cambiare nel tempo, ma non si può sradicare il bisogno primario di quei principi, perché sono dentro di noi, sono necessarie proiezioni e protezioni della nostra vita, sono il senso del limite all’onnipotenza falsa dell’io e sono l’apertura a qualcosa che ci trascende e che vive oltre noi. Si può avere anche un rapporto critico con questi principi, come è accaduto alle migliori tradizioni culturali e politiche della sinistra; ma sbrigarsela in quel modo, “ evacuare” quei principi che sono stati il fondamento di ogni civiltà, è un segno di miseria e di ottusità, di chiusura della mente che non riguarda solo la sinistra, naturalmente; ma se consideriamo che la sinistra in Italia è considerata il partito della cultura, degli intellettuali e dell’egemonia, si comprende la bassezza dell’attuale sua condizione.
— Pensa che il ‘68 sia stata un vera rivoluzione e cosa ha significato per le nuove generazioni l’imperativo “vietato vietare”?
— Ho scritto più libri sul ’68 che io considero una rivoluzione fallita sul piano politico ed economico perché non rovesciò alcun potere e non superò il capitalismo, anzi lo rafforzò. Mentre ritengo il ’68 una rivoluzione riuscita sul piano del costume, del linguaggio, del rapporto tra le generazioni, che ha avuto effetti devastanti sulla famiglia, la scuola, l’università. Il sessantotto ha spezzato il legame tra diritti e doveri, tra meriti e bisogni, tra libertà e responsabilità, ha generato un narcisismo di massa, ha alimentato il nichilismo della nostra società. Dal ’68 nasce tra l’altro la nuova religione del nostro tempo che è il politicallycorrect, quel canone di prescrizioni, divieti e ipocrisie che ha generato una forma di bigottismo progressista.
— Il sovranismo può davvero evolvere in qualcosa di più profondo o resterà un serbatoio di protesta? Può esistere davvero un modello politico che faccia a meno delle élite?
© AP Photo / Andrew Medichini
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— Il populismo è lo stadio primario della rivolta, una specie di età infantile della politica; il sovranismo dovrebbe essere la sua parziale evoluzione, perché unisce all’espressione degli umori e dei malumori popolari anche l’idea di una sovranità politica, di una responsabilità nella decisione e un riferimento nazionale e statale. Occorre però raggiungere una terza fase più matura, che io chiamo comunitaria, in cui il legame col popolo e con la tradizione nazionale viene inevitabilmente collegato alla necessità di formare e selezionare classi dirigenti, élite o aristocrazie in grado di guidare i popoli e gli stati. Tra il leader e le masse non può esserci il vuoto. Anche perché i capi-popolo senza elite sono solo tribuni della plebe, non veri leader.
— Come giudica l’azione del governo italiano durante la fase Covid-19?
— A parte gli errori di valutazione e di tempi, che possono essere anche comprensibili, l’Italia è il paese al mondo che ha avuto il rapporto più alto tra infetti e deceduti; e dunque reputo del tutto fuori luogo l’auto-elogio del governo italiano e la presunzione di porsi come modello per tutto il mondo. In primo luogo l’Italia ha seguito semplicemente il modello cinese, in secondo luogo ha adottato una restrizione delle libertà più elementari fino a configurare una specie di dittatura sanitaria, come l’ho chiamata (per primo) e molte sono state le carenze e le assenze dello stato sia nella fase sanitaria (sono mancate per mesi mascherine, tamponi, macchine per la respirazione) sia nella gestione inefficace, velleitaria, simulata dei disastrosi effetti economici e sociali del dopo pandemia.
— Quali sono, secondo Lei, i nuovi punti di riferimento culturali contemporanei per la destra?
— Ammesso che abbia ancora senso definirsi di destra e usare le categorie di destra e di sinistra, direi che la destra si connota per una difesa della realtà, della natura, della storia, della tradizione e della visione spirituale della vita e tutti gli autori passati e viventi che sono in questo solco possono considerarsi dei riferimenti preziosi. In un libro che titolai Imperdonabili, ho raccolto cento ritratti di autori necessari, anche in senso critico, a formare una compiuta visione del mondo.
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© AP Photo / Thanassis Stavrakis
Una previsione spaventosa dall’America: quando l’Islam dominerà in Europa
— Quale sarà il ruolo delle religioni in un mondo fortemente tecnologizzato? Quale futuro prevede per l’Europa dal punto di vista delle fedi professate? L’Europa diventerà islamica?
— L’Europa è presa in una morsa tra nichilismo e fanatismo: il fanatismo è soprattutto di matrice islamista, il nichilismo è invece un prodotto interno dell’Occidente e del dominio globale della tecnica e del mercato e nasce dal processo di scristianizzazione che avanza ormai da tempo e che l’attuale pontificato sembra aver accelerato. Difficile dire se sarà possibile un risveglio della religione cristiana e in particolare del cattolicesimo. Ma credo che sia inestirpabile, fino a che siamo uomini, il senso religioso, il riferimento a un principio superiore, divino, il legame con la propria civiltà, la propria tradizione. Reputo possibile rendere compatibile l’universo tecnologico con l’universo spirituale, la tecnica con il sacro e il mito.
— La destra e quella italiana in particolare ha sempre visto nell’Europa uno spazio di libertà. Che fine ha fatto oggi quel “mito” di fronte all’atteggiamento degli stati cosiddetti “frugali” in alcuni dei quali le imprese italiane pagano le tasse?
— L’Europa aveva due possibilità di unirsi: come risposta alla globalizzazione o come gradino verso la globalizzazione. Nel primo caso avrebbe dovuto accentuare la sua identità, la sua civiltà, la sua cultura e avrebbe dovuto concepirsi unita rispetto al mondo esterno, avendo una sola voce nella politica estera, sul piano militare, rispetto alla colonizzazione americana, alla penetrazione cinese, ai flussi migratori. Nel secondo caso, che è stato poi quello scelto, l’Europa non ha funzionato rispetto al mondo esterno, è inerme e divisa rispetto ai problemi del mondo, ed invece esercita un’assurda pressione tecnico-finanziaria al suo interno, costringendo popoli, economie, storie diverse sotto un solo standard nord-europeo e culturalmente protestante. L’Europa mediterranea vive questa situazione con particolare sofferenza.
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