Negazionismo, hate speech, libertà di opinione: dove comincia e finisce un diritto
da Katia Bovani | Gen 28, 2021
Negazionismo e diritto: cosa dice la legge
Il negazionismo può definirsi una corrente di pensiero che nega l’esistenza di eventi storici avvenuti e documentati e/o realtà scientifiche acclarate e dimostrate con metodo scientifico.
Essere negazionista non costituisce un problema di per sé.
Possiamo discutere se la teoria della sfericità della Terra (al netto dello schiacciamento dei poli) sia attribuibile ad Eratostene o ad Anassimandro, ma il terrapiattismo non scalfisce affatto ciò che risulta dall’osservazione dell’ombra proiettata dalla Terra sulla Luna durante le eclissi oppure dalle foto scattate dai satelliti artificiali ad elevatissime altezze.
Allo stesso modo, negare l’esistenza del COVID-19 e pensare che la pandemia sia un pretesto per instaurare la dittatura non toglie alcunché (purtroppo) al numero dei morti che contiamo dall’inizio del 2020.
Possiamo spingerci ancora più avanti e rimaniamo, pur sempre, nell’ambito della legittimità delle opinioni.
Negare l’Olocausto è qualcosa di riprovevole sul piano etico e morale e repelle ad ogni coscienza che possa definirsi “umana”. Ma dal punto di vista giuridico negare il genocidio ebraico, fintantoché si limita a costituire un’opinione personale non propagandata, è atto sussumibile a quelli di esercizio della libertà d’ espressione.
Senza dubbio, la posizione del diritto può sembrare strana. In realtà, è perfettamente coerente a se stesso: sopprimendo o limitando il diritto del negazionista a pensare ciò che ritiene motivandolo con una valutazione di immoralità del contenuto del suo pensiero finiremmo per abbracciare proprio ciò da cui ogni democrazia liberale rifugge e cioè l’eliminazione del dissenso, vero presupposto di ogni dittatura.
Quando si profila una condotta penalmente perseguibile
Tuttavia, c’è un punto oltre il quale il negazionismo passa dall’area del libero pensiero all’ambito delle condotte penalmente perseguibili e punibili ovvero allorché
- propaganda il proprio pensiero come un fatto dal quale può derivare allarme pubblico o essere all’origine di un danno sociale perché, magari, fa da propulsore ad azioni o reazioni sociali non controllabili,
- istiga all’odio e/o alla violenza verso gruppi di persone o loro membri definiti in riferimento alla razza, al colore, al sesso, alla religione, all’ascendenza, all’origine nazionale, culturale o etnica.
Per questa ragione, il legislatore italiano ha inserito, nel nostro codice penale, l’art. 604 bis titolato “Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa”.
Si è trattata di una scelta obbligata dal proliferare dei casi di incitamento all’odio razzista e xenofobo verificatisi soprattutto ad opera di movimenti e/o partiti neonazisti o dichiaratamente fascisti.
Dunque, la libertà di manifestazione del pensiero, quale diritto costituzionalmente tutelato, deve necessariamente cedere il passo ad altri diritti di rango altrettanto costituzionale quali l’uguaglianza, la dignità, il decoro e la salute.
La stessa ratio è alla base della postura assunta dal diritto nei confronti delle correnti negazioniste in ambito sanitario riguardo alle quali il limite di legittimità espressiva si attesta sul duplice crinale del prestigio delle istituzioni repubblicane (la cui violazione è punita dall’art. 290 del nostro codice penale) ed in quelle pratiche dialettiche o materiali che si configurano come abuso del diritto di opinione.
Negazionismo, hate speech e social network
Il negazionismo è una forma del cosiddetto hate speech (discorso di incitamento all’odio).
I discorsi di incitamento all’odio si caratterizzano anche per la finalità: un hate speech è realmente tale se causa effetti pratici nella sfera personale del destinatario oppure se mira a colpire gruppi umani a rischio di discriminazione.
Come accade per il negazionismo, il terreno ideale per la propagazione dell’hate speech è la rete e, in particolare, i social network.
Velocità di trasmissione dei dati, capillarità di localizzazione negli anfratti strutturali del web, assenza di frontiere tra gli intermediari. Ecco, in sostanza, su cosa può contare la diffusività dell’hate speech.
Ma c’è un altro fattore che favorisce questa pratica deleteria e si tratta di un elemento di stretta inerenza umana: l’elemento psicologico.
Il fatto di trovarsi dentro un mondo digitale composto di milioni di utenti e, allo stesso tempo, al di fuori di esso – dal momento che la presenza fisica è dinanzi al proprio device -, induce molti a quella distorsione cognitiva per cui ciò che accade nel web non è reale e, quindi, lì si possono tenere atteggiamenti e scrivere parole non consentiti nella realtà.
Questo sdoppiamento tra avatar e persona fisica misto alla logica del branco (per cui se siamo in tanti a lanciare la stessa offesa, di certo sfuggiamo al controllo) è alla base della falsa convinzione di rimanere anonimi e non punibili anche quando l’account è identificato.
Il Codice di Condotta Europeo contro le forme di incitamento all’odio on line
Nell’attesa di una legislazione sovranazionale che positivizzi e punisca le condotte di hate speech off line e on line, vale la pena sottolineare l’intento collaborativo di social network come Facebook, Youtube, Twitter e, recentemente, TikTok i quali hanno aderito al Codice di Condotta Europeo contro le forme di incitamento all’odio on line – che, tuttavia, ha base volontaria – con il consequenziale adeguamento delle loro regole per la community.
Il nostro excursus sul diritto di pensiero sta per volgere al termine e, come accade in tutti i confronti intellettuali, v’è un momento in cui occorre tirare le somme. Lo faremo nel prossimo articolo.
Foto di mohamed Hassan da Pixabay
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