Negare, minimizzare e giustificare i genocidi
di Anna Foa
Un’immagine del genocidio armeno Foto di Armin T.Wegner
Non esiste un solo negazionismo, come non esiste un solo genocidio. Con questo termine, “negazionismo”, designiamo infatti tutti gli atteggiamenti volti a dichiarare nullo o mai avvenuto ogni genocidio o ad attribuirne le vittime, se proprio non si possono negare, alle malattie, alle guerre, agli scontri fra etnie. Così, l’ultimo grande genocidio del Novecento, quello avvenuto in Ruanda nel 1994, viene volentieri definito da molti come uno scontro tribale. O altrimenti, con un atteggiamento che vorrebbe essere oggettivo, se ne ricercano le radici nella storia passata. Nel caso del Ruanda, nello scontro tra etnie e nella pesante eredità dell’oppressione coloniale, come se ogni oppressione coloniale non fosse stata pesante e come se l’esistenza di molte etnie non fosse una caratteristica comune all’intera Africa. In questo caso, però, contestualizzare vuol dire negare, minimizzare. Il riferimento al contesto etnico ha lo scopo di giustificare. La spiegazione apparentemente oggettiva mira a disconoscere la caratteristica di genocidio allo sterminio, nel breve spazio di tre mesi, di quasi un milione di tutsi da parte delle milizie hutu. Nello sfondo, anche se inespressa, c’è, almeno da parte di quegli europei che sostengono tale negazionismo, l’idea che si tratti, in fondo, solo di africani, e che in Africa cose del genere succedano continuamente o quasi.
Un altro discorso fortemente giustificativo è quello usato dai turchi a proposito del genocidio armeno. Qui la responsabilità è attribuita alla guerra, il massacro mirato della minoranza armena ricondotto alla violenza bellica. Anche qui c’è uno sfondo che fa da contorno alla giustificazione: gli armeni erano ricchi, erano mercanti. Uccidere un ricco mercante, sterminarne i figli e i nipoti, sembra meno grave che uccidere un povero contadino. I guerrieri curdi che dalle montagne piombavano sulle carovane delle donne e dei bambini armeni a violentare ed uccidere erano giustificati dalla loro arretratezza e dalla loro miseria. Lo stesso discorso vale per i tutsi, più urbani, più “acculturati”, più vicini agli europei degli hutu. Non se la sono andata un po’ a cercare, come i mercanti armeni o come, per dirla tutta, gli ebrei?
E in fondo, un discorso molto simile è stato fatto anche per i khmer rossi, che hanno assassinato da uno a due milioni di cambogiani. Le vittime erano soprattutto gli abitanti delle città, sapevano leggere e scrivere, portavano in alcuni casi perfino gli occhiali. Che provocazione, in una situazione in cui la maggioranza dei contadini erano analfabeti! E nella rivoluzione culturale per chi abbiamo parteggiato? Per le Guardie Rosse, naturalmente, che rappresentavano per noi gli oppressi della storia, coloro che cercavano il riscatto dalla miseria. Non sapevamo, o non ce ne siamo curati, che neanche agli oppressi, anche se tali fossero stati, si può riconoscere il diritto allo sterminio. E che non si può neanche scivolare dalla spiegazione alla giustificazione, soprattutto quando la spiegazione non spiega molto, se si limita a mettere in luce odi e rancori di classe, di etnie, di gruppo. Ma la realizzazione di un genocidio ha bisogno di ben altro che di odi e rancori, ha bisogno di un piano, di un’organizzazione, di menti oltre che di braccia. E se anche tutte le braccia fossero quelle degli oppressi, come non è, certo non lo sono le menti che guidano gli assassini.
Naturalmente, la Shoah è il modello, oltre che di tutti i genocidi, anche di tutti i negazionismi. Perché è un genocidio più vasto, più organizzato degli altri genocidi, perché non ne abbiamo ancora elaborato la memoria e sanato le ferite. Perché si è realizzato nella vecchia Europa. Perché ha avuto più penne che lo descrivessero, più prove che lo dimostrassero. Perché ha avuto menti che lo hanno organizzato scientificamente, basti pensare alla cultura della razza o al ruolo dei medici, oltre che un entroterra culturale e mentale che lo ha accettato, basti riflettere sulla vastità del consenso al nazismo. Perché, ancora, è sulla Shoah che abbiamo visto crescere, fin dall’inizio, fin dalle camere a gas ancora in funzione, il negazionismo, che lo abbiamo individuato, che gli abbiamo dato un nome.
E prima? E dopo? Prima della Shoah, c’è stato un genocidio a molti ignoto, anche se al momento ha suscitato echi e dibattiti, tanto che è stato fermato dal Parlamento tedesco: quello degli Herero ad opera del governo coloniale tedesco. Non ci si è sprecati a negarlo o comunque è stato fatto passare per un atto di repressione forse eccessivo, ma comunque “normale”. E poi, quello degli armeni. Di questo il mondo si è accorto, anche se Hitler diceva “Chi si ricorda più dello sterminio degli armeni?” Eppure, il romanziere ebreo Franz Werfel pubblicava proprio nel 1933, l’anno dell’avvento del nazismo, il suo I quaranta giorni del Mussa Dagh, dedicato al genocidio armeno. E più tardi nei ghetti nazisti molti ebrei, soprattutto fra i giovani, come quelli che a Varsavia avrebbero dato vita alla rivolta del Ghetto, leggevano quel romanzo come un preludio a quello che stavano subendo. Ed è a proposito degli armeni che è nato il primo negazionismo, anche se ancora non portava questo nome. Per i turchi, infatti, lo sterminio degli armeni non è mai esistito, si è trattato solo di violenze dovute alla guerra e della repressione delle rivolte armene. È questa ancora oggi, a distanza di quasi cento anni, la posizione ufficiale del governo turco, anche se Erdogan ha recentemente fatto le condoglianze agli armeni. Senza tuttavia dire per che cosa.
Un’altra caratteristica comune dei negazionismi è che essi nascono contemporaneamente allo sterminio; sono un aspetto, il primo, del genocidio. In questo i nazisti sono stati dei veri e propri maestri. Un giorno il mondo sarebbe stato pronto, pensavano, a considerare lo sterminio degli ebrei come una grande eroica realizzazione, ma quel momento non era ancora arrivato: di qui, il segreto, per quanto si può parlare di segreto a proposito di un delitto compiuto su scala così vasta e con il coinvolgimento di tanti esecutori e complici. Il segreto è il primo momento del negazionismo, serve a poter dire che nulla di tutto quello di cui si parla è mai avvenuto. Non importa se esistono decine di migliaia di testimonianze, migliaia di prove. A differenza del negazionismo sugli armeni e sui tutsi, che non nega i morti ma li giustifica nel gran calderone della guerra o dello scontro etnico, il negazionismo della Shoah nega i numeri, i fatti, le camere a gas in primo luogo, il valore della documentazione. L’effetto è lo stesso ma il percorso è diverso.
Ancora diverso è quello che copre i gulag, lo sterminio per fame dei contadini ucraini, i morti della Rivoluzione Culturale o di Pol Pot. Dove l’opinione pubblica non esiste, o è gravemente limitata, non c’è bisogno nemmeno di negare, basta tacere e far sì che nessuno parli troppo. Di qui le difficoltà nella Russia di Putin del Movimento Memorial, il più importante e impegnato movimento nato nella Russia di Gorbacev per riconoscere le vittime di Stalin e in difesa dei diritti umani, che oggi è sottoposto a molti attacchi, in un Paese in cui nemmeno la vita dei giornalisti è garantita, come molti casi ci insegnano, a partire da quello di Anna Politkoskaja. Perché infatti, ed è una ben scarsa consolazione per noi cittadini dell’Europa democratica dove il negazionismo cresce rigoglioso, esso è rivolto in particolare ai cittadini dei Paesi democratici, li indottrina con le menzogne a negare i genocidi del passato in modo da non prevenire nemmeno quelli del futuro. Nei Paesi dove manca la possibilità di levare la propria voce non c’è bisogno neanche di far propaganda alle menzogne, bastano il silenzio e la paura.
Anna Foa, storica e docente all’Università La Sapienza di Roma
Analisi di Anna Foa, storica e docente all’Università La Sapienza di Roma
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