Napoli, baby gang e “nuovo ribellismo”
di Gigi Di Fiore
“Vivono nella parte ricca di Napoli, sono più fortunati, quando ci hanno guardati li abbiamo accoltellati”. Se queste sono le spiegazioni di uno degli adolescenti fermati per aver ferito con un temperino un suo coetaneo al quartiere Vomero, sono dimostrazione di una nuova questione sociale napoletana, da tempo rimossa e mai affrontata.
La Napoli dal doppio volto, le due città che hanno fatto produrre fiumi di inchiostro a fior di intellettuali delle nostre parti come La Capria, o la Ortese, non sono mai morte. La Napoli alta, colta, più fortunata contrapposta a quella dell’eterna plebe. Ricchi e poveri, con stelle diverse sulle proprie esistenze per predestinazione e per caso.
Ci si era affannati, negli ultimi mesi, nelle analisi sulle gang metropolitane giovanili, sull’emulazione di questi adolescenti a modelli televisivi scimmiottando improbabili boss storici della camorra napoletana, ormai scomparsi perchè in carcere o diventati collaboratori di giustizia. Le paranze dei bambini, i gestori ventenni della droga, i cultori della violenza per la violenza, le definizioni si sono sprecate e sintetizzano realtà diverse e complesse. Ci si accorge ora che, sugli episodi a catena degli ultimi mesi (le risse con colpi di pistola ai baretti di Chiaia, l’aggressione di adolescenti al Vomero, il grave accoltellamento senza ragioni del diciassettenne Arturo in via Foria), le spiegazioni non possono essere univoche, nè semplicistiche.
Come sempre, per interpretare la storia e la cronaca occorrono più strumenti e approcci, come sosteneva la scuola francese degli Annales: sociologia, psicologia, conoscenze storiche, della realtà criminale e socio-ambientale. Nelle sue profonde analisi sulla camorra cittadina, il compianto Amato Lamberti evidenziava spesso la caratteristica di “ammortizzatore sociale” ricoperta dai clan, nel dare sfogo alla violenza delle classi marginali, soddisfacendo ambizioni di rivalsa e di scalata sociale. Una realtà criminale, in fondo, di comodo negli equilibri di potere sociale, perchè evita rivolte e ribellioni esplose invece in tante periferie europee.
Oggi, il magma confuso della realtà criminale cittadina, nella sua frammentarietà, nel suo disordine diventa somma di tante cose. Non ci sono più solo logiche affaristiche di gruppi, ma gli adolescenti figli di aree soprattutto della periferia e del centro storico si realizzano attraverso modelli i violenti che sanno farsi valere e ottengono il rispetto dovuto al più forte. La violenza per la violenza, condita e alimentata da invidia verso chi magari, anche se deve fare in famiglia ugualmente i conti con difficoltà economiche, vive in realtà più tranquille, meno degradate, con meno tensioni e inferiori ansie di sopravvivenza.
E’ una nuova forma di ribellismo, in fondo. Un ribellismo episodico, senza progetti, senza obiettivi. Cogliere l’attimo, rapido, dello sfogo violento. Qualsiasi sia il bersaglio, qualsiasi siano le storie delle vittime individuate per caso. Conta il luogo dove tutto avviene, non la persona scelta a bersaglio. Non esiste alcun tentativo di superamento di una condizione sociale né di scalata verso l’alto nella cultura e nell’impegno, perchè l’autoreferenzialità del gruppo, la sua chiusura espressa anche nei social, i suoi limitati riferimenti culturali e comunicativi si bastano. E’ un ribellismo senza speranze, senza prospettive, senza sogni, senza disegni politici nel significato alto della parola.
Se tutto questo è vero, significa che a Napoli si è aperta da tempo una sfida di grandi dimensioni e imprevedibili conseguenze nel medio periodo. Una sfida che non può essere affrontata solo con i volti delle forze di polizia, dei carabinieri, dei poveri insegnanti di scuola. Qui, forse, la retorica può prendere la mano (il lavoro che manca spesso diventa un alibi per chi cerca il superfluo, il consumo di alto prezzo) ed allora è meglio che, dalla coscienza che abbiamo lasciato la città nelle mani della volgarità, del degrado, dell’assenza di progetti e di buoni maestri di strada. Non bastano i padre Loffredo, né le poche onlus impegnate in aree difficili. Ci sono intere aree cittadine che, probabilmente, non conosciamo più, o conosciamo per stereotipi: la città degli immigrati, la città della plebe eterna, la città dei posillipini di una volta o dei vomeresi della non-città. Quante Napoli andrebbero più raccontate o conosciute? Il nostro bubbone, che rischia di produrre metastasi sempre più evidenti con livellamenti culturali e di stili di vita verso il basso esteso in più ambienti sociali, è arrivato al suo punto più critico. E quell’adolescente che parla di accoltellamento al coetaneo “perchè più fortunato” ne è un’allarmante spia.
Mercoledì 10 Gennaio 2018, 12:09