Morte ai “blasfemi” in Pakistan

Morte ai “blasfemi” in Pakistan

di Raymond Ibrahim 11 agosto 2022

Pezzo in lingua originale inglese: Death for “Blasphemers” in Pakistan
Traduzioni di Angelita La Spada
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Il 4 luglio 2022, un meccanico cristiano in carcere da cinque anni e in attesa di processo con la falsa accusa di “blasfemia” per aver presumibilmente offeso il profeta musulmano Maometto è stato condannato a morte per impiccagione da un tribunale pakistano. (Fonte immagine: iStock)

Cinque anni prima, il 5 giugno 2017, Ashfaq Masih, 34 anni, aveva litigato con Muhammad Naveen, un rivale che aveva aperto un’officina meccanica vicino a quella di Masih. Secondo la dichiarazione di non colpevolezza resa da Masih, Muhammad “era geloso perché i miei affari andavano meglio” e, dopo il loro diverbio, “mi minacciò di terribili conseguenze”. Il giorno successivo, il 6 giugno, secondo il racconto di Masih:

“Muhammad Irfan è venuto nel mio negozio per equilibrare le ruote della sua moto. L’ho fatto e gli ho chiesto di pagarmi la manodopera, come stabilito tra di noi. Muhammad Irfan si è rifiutato di saldarmi e ha detto: ‘Sono un seguace di Peer Fakhir [un musulmano ascetico] e non chiedermi soldi’. Gli ho detto che sono un credente in Gesù Cristo e non credo in Peer Fakhir e gli ho chiesto gentilmente di pagarmi la manodopera”.

A quel punto Muhammad Irfan si recò, o forse tornò, nel negozio rivale di Muhammad Naveed e, pochi istanti dopo, intorno al negozio del cristiano si era formata una folla di musulmani. Come spiega Masih:

“Entrambi [Muhammad Naveed e Muhammad Ashfaq] hanno cospirato contro di me e hanno presentato una falsa denuncia formale a mio carico. Ho raccontato a un agente di polizia come sono andati realmente i fatti, ma lui non ha registrato la mia versione e ha condotto un’indagine privata. Non ho nemmeno pronunciato parole dispregiative contro il profeta Maometto né avrei potuto pensare di farlo”.

Insieme al proprietario del negozio rivale Muhammad Naveed, Muhammad Irfan, il denunciante, ha anche convinto altri due musulmani – Muhammad Nawaz e Muhammad Tahir – a mentire e a dire alla polizia che “hanno sentito Masih pronunciare parole dispregiative contro il profeta musulmano”, anche se nessuno di loro era presente durante il diverbio tra Irfan e Masih.

Masih è stato accusato ai sensi della sezione 295 C del Codice Penale del Pakistan, che afferma:

“Chiunque con le parole, sia pronunciate sia scritte, o con rappresentazione visibile o qualsiasi attribuzione, allusione, insinuazione, direttamente o indirettamente, offende il sacro nome del Profeta Maometto (pace a Lui), deve essere punito con la morte o il carcere a vita, ed è anche passibile di multa”.

Il problema di questa legge non è tanto che la sentenza è estrema e irrevocabile, quanto piuttosto che i musulmani la sfruttano regolarmente per risolvere rancori personali contro le minoranze non musulmane in Pakistan. Il fatto è che le minoranze non musulmane del Pakistan, per lo più cristiane e indù, sanno che è meglio non dire qualsiasi cosa che possa essere erroneamente interpretata come offensiva sul profeta musulmano perché conoscono bene le terribili ripercussioni. Fin dall’infanzia, viene insegnato loro a mostrare nient’altro che deferenza per il profeta dell’Islam. Ciò, tuttavia, non impedisce ai musulmani di accusare falsamente questi “infedeli” di aver offeso Maometto.

Amnesty International ha notato questa dinamica in un rapporto stilato quasi tre decenni fa, nel 1994:

“[In] tutti i casi noti ad Amnesty International, le accuse di blasfemia [in Pakistan] sembrano essere state mosse arbitrariamente, fondate esclusivamente sulle convinzioni religiose delle minoranze individuali. (…) Le prove disponibili in tutti questi casi indicano che le accuse sono state presentate come misura per intimidire e punire i membri delle comunità religiose minoritarie (…) l’ostilità nei confronti di gruppi di minoranze religiose sembrava in molti casi essere aggravata da inimicizia personale, rivalità professionale o economica o dal desiderio di ottenere un vantaggio politico. Di conseguenza, Amnesty International ha concluso che la maggior parte delle persone che ora sono accusate di blasfemia, o condannate per tali accuse, sono prigionieri di coscienza, detenuti esclusivamente per le loro convinzioni religiose reali o presunte in violazione del loro diritto alla libertà di pensiero, coscienza e di religione [corsivo aggiunto]”.

L’implicazione che, quando si tratta di casi di blasfemia, le aule dei tribunali pakistani ospitano processi non equi sembrerebbe una descrizione adeguata del recente processo ad Ashfaq Masih. Nonostante i cristiani in Pakistan sappiano che devono essere estremamente attenti a dire qualsiasi cosa che possa essere fraintesa come un’offesa a Maometto, il pubblico ministero ha dichiarato:

“Il 15 giugno 2017, alle 12, Ashfaq Masih, mentre era seduto in negozio, ha pronunciato parole blasfeme nei confronti del profeta Maometto e ha detto cose [che] non possono essere ripetute”.

Il giudice musulmano che presiede il caso, Khalid Wazir, è arrivato al punto di affermare che “non si può credere che un musulmano rivolti la frittata al riguardo”, definendo al contempo le prove presentate dalla squadra di difesa di Masih come “non credibili”. Così, il 4 luglio 2022, Khalid ha sentenziato che il 34enne cristiano, che ha una moglie e una figlia piccola, “sarà impiccato, previa conferma dell’Onorevole Alta Corte”.

Considerando che Masih era già in carcere da cinque anni, la sua famiglia è rimasta inorridita quando il giudice ha pronunciato la condanna a morte. Non gli era stato permesso di vedere o stare accanto a sua madre, morta nel 2019, perché era dietro le sbarre. Da allora, “il caso ha avuto molteplici rinvii, riprogrammazioni, il giudice non si è presentato, così come i testimoni, e persino l’avvocato del denunciante non ha registrato la loro presenza”.

Secondo il fratello maggiore di Masih, Mehmood:

“L’improvvisa sentenza mi ha stupito e non ho saputo cosa fare. Non appena mi sono leggermente ripreso sono uscito dall’aula e ho iniziato a piangere perché per me era la fine del mondo. Sono corso a casa e ho informato la mia famiglia. Mia moglie e anche i bambini hanno iniziato a piangere. Quando la notizia si è diffusa i miei parenti hanno iniziato a farci visita per consolarci, ma non è stato facile per me dato che Masih è il mio unico fratello e gli voglio molto bene”.

A proposito di questa sentenza, Nasir Saeed, direttore del Center for Legal Aid Assistance and Settlement, un ente di beneficenza che sostiene i cristiani perseguitati in Pakistan, ha dichiarato che il verdetto è stato “deplorevole, ma prevedibile”. E ha aggiunto:

“Non ricordo nessun caso in cui il tribunale di primo grado abbia deciso di concedere la libertà su cauzione o di liberare chiunque fosse accusato di aver violato la legge sulla blasfemia. I giudici sono consapevoli che casi del genere sono fatti per punire e risolvere rancori personali con gli oppositori, soprattutto contro i cristiani. A causa delle pressioni esercitate dai gruppi islamici, i giudici dei tribunali di grado inferiore sono sempre riluttanti a liberare le vittime, ma prendono decisioni popolari per salvare la loro pelle e trasferire il loro fardello all’Alta Corte. Il caso di Masih era molto chiaro: il proprietario del negozio lo voleva sfrattare e Naveed era un rivale in affari che lo ha coinvolto in un caso di falsa blasfemia. È innocente e ha già trascorso cinque anni in prigione per un crimine che non ha mai commesso”.

Il caso di Masih è ora almeno la terza condanna a morte di questo tipo dall’inizio di quest’anno.

Nel febbraio 2022, Zafar Bhatti, 58 anni, un altro cristiano che stava scontando l’ergastolo con la falsa accusa di aver offeso Maometto in un messaggio telefonico, è stato condannato a morte.

Nel gennaio 2022, Aneeqa Atteeq, una donna musulmana è stata condannata a morte dopo che un tribunale pakistano l’ha dichiarata colpevole di aver offeso Maometto nei messaggi di testo che aveva inviato a un uomo tramite WhatsApp. La donna ha offerto una spiegazione più plausibile, se non banale: l’uomo che l’aveva denunciata si stava “vendicando” di lei perché aveva rifiutato le sue avances.

Per quanto sia orribile essere accusati di blasfemia in un’aula di tribunale pakistana, è ancora peggio cadere nelle mani di una folla inferocita di pakistani. Un reportage pubblicato dieci anni fa ha rilevato che in Pakistan, solo tra il 1990 e il 2012, “cinquantadue persone sono state vittime di esecuzioni extragiudiziali con l’accusa di blasfemia”.

Più di recente, nel marzo 2022, una donna musulmana e le sue due nipoti hanno massacrato Safoora Bibi sgozzandola, dopo che un parente delle tre assassine aveva semplicemente sognato che Bibi aveva offeso Maometto.

Nel febbraio 2022, una folla inferocita di musulmani ha lapidato a morte un uomo mentalmente disabile dopo che si era sparsa la voce che aveva bruciato una copia del Corano.

Nel dicembre 2021, una folla si riversò in una fabbrica dove uccise un uomo dello Sri Lanka e poi ne bruciò il corpo, a causa delle voci che si erano diffuse in merito al fatto che avesse offeso Maometto. Almeno, l’uomo venne ucciso prima che il suo corpo fosse bruciato, a differenza di una giovane coppia cristiana che un’altra folla pakistana aveva lentamente bruciata viva nel 2015 perché accusata di aver offeso l’Islam.

Quest’orribile modo di uccidere i presunti “blasfemi” di recente è visibile anche in Nigeria. Due mesi fa, alcuni studenti universitari hanno lapidato a morte e bruciato Deborah Emmanuel, una studentessa cristiana che aveva rifiutato le avances sessuali di un giovane musulmano. Quest’ultimo ha reagito al rifiuto dicendo ad alta voce che la ragazza aveva insultato Maometto, il profeta dell’Islam. In poco tempo, si è raggruppata una folla e l’ha uccisa.

Per quanto oppressive siano le “leggi sulla blasfemia” in Pakistan, non sono limitate a un Paese né sono un sottoprodotto di esso. Sono, purtroppo, i sottoprodotti dell’Islam. Non soltanto si verificano in tutto il mondo islamico (ad esempio, in Indonesia, in Iran, in Malesia, in Oman e in Bangladesh), ma hanno iniziato a diffondersi in Occidente, come in Francia e in Spagna.

“Quando si tocca il Profeta”, ci ha avvisato tutti Yello Babo, un religioso musulmano che ha difeso la lapidazione e il rogo del corpo di Deborah Emmanuel da parte di una folla in Nigeria, “diventiamo pazzi. (…) Chiunque tocchi il profeta, non merita nessuna punizione: va semplicemente ucciso!”

 

Raymond Ibrahim, autore di Crucified Again: Exposing Islam’s New War in Christians (pubblicato dalla casa editrice Regnery in collaborazione con il Gatestone Institute, nell’aprile 2013), è Shillman Fellow del David Horowitz Freedom Center e Judith Friedman Rosen Writing Fellow del Middle East Forum.