L’Occidente incolpa a torto se stesso per la schiavitù dilagante in Africa e in Medio Oriente
di Giulio Meotti 29 luglio 2020
Pezzo in lingua originale inglese: Slavery Rampant in Africa, Middle East; The West Wrongly Accuses Itself
Traduzioni di Angelita La Spada
Per gli attivisti intersezionali, gli Stati Uniti sono il più grande oppressore al mondo, e non la Cina, la Corea del Nord, l’Arabia Saudita o l’Iran.
“Quello che i media non vi dicono è che l’America è il miglior posto al mondo in cui essere neri, donne, gay o trans. Abbiamo i nostri problemi e dobbiamo risolverli. Ma la nostra società e il nostro sistema non sono affatto razzisti.” – Ayaan Hirsi Ali, Twitter, 9 giugno 2020.
“Il nuovo antirazzismo è il razzismo mascherato da umanesimo (…) ne deriva che ogni bianco è cattivo (…) e ogni nero è una vittima.” – Abnousse Shalmani, nata a Teheran e residente attualmente a Parigi, in un’intervista a Le Figaro, 12 giugno 2020.
“L’America sembra diversa se sei cresciuta come me in Africa e in Medio Oriente.” – Ayaan Hirsi Ali, The Wall Street Journal, 26 giugno 2020.
È giunto il momento che gli Stati Uniti smettano di finanziare le Nazioni Unite. (…) Le Nazioni Unite vengono ora utilizzate per perpetuare l’ingiustizia, e non per fermarla.
I veri mercanti di schiavi e i razzisti – coloro che credono che le società e i valori occidentali non dovrebbero affatto esistere – verosimilmente guardano l’autoflagellazione dell’Occidente e approvano con esultanza.
Gli Stati Uniti hanno abolito la schiavitù 150 anni fa e hanno promosso delle politiche di tutela dei diritti delle minoranze. È il Paese che ha eletto due volte un presidente nero, Barack Obama! Eppure, un nuovo movimento sta abbattendo un monumento storico dopo l’altro, come se gli Stati Uniti stessero ancora schiavizzando gli afro-americani. A Washington, D.C., gli attivisti hanno perfino preso di mira un memoriale dell’emancipazione, raffigurante il presidente Abraham Lincoln, che pagò con la vita la liberazione degli schiavi.
Oggi, la schiavitù esiste ancora in molte parti dell’Africa e del Medio Oriente, ma l’opinione pubblica occidentale che si autoflagella è focalizzata ossessivamente solo sul passato occidentale degli odierni schiavi africani anziché sulla reale schiavitù in corso, che è viva e vegeta – e ignorata. Per gli schiavi di oggi, non ci sono manifestazioni di piazza, non c’è alcuna pressione politica internazionale e la stampa non si interessa a loro.
“Non dobbiamo dimenticare che gli arabi musulmani sono stati dei campioni in questo ambito”, ha scritto Kamel Bencheikh, un poeta musulmano, in Le Matin d’Algerie.
“Gli emiri e i sultani hanno acquistato interi convogli di giovani efebi neri da trasformare in eunuchi per proteggere i loro harem. E questo è continuato con gli imperatori ottomani (…) Ancora oggi, Mauritania e Arabia Saudita ospitano il loro Ku Klux Klan. La schiavitù è ancora all’ordine del giorno a Nouakchott [Mauritania]. Quanto a Riad, tutto ciò che si deve fare è scoprire le giovani ragazze asiatiche che i potentati assumono come cameriere”.
Un’inchiesta della BBC Arabic ha scoperto che i lavoratori domestici in Arabia Saudita vengono perfino venduti online in un mercato di schiavi in forte espansione.
Secondo Bencheikh, la morte di George Floyd è stata un’opportunità per molti in Europa di trasformare una lotta rispettabile in una depravazione inimmaginabile.
“Così, a Place de la République a Parigi o ad Avenue Louise a Bruxelles, ci sono criminali vendicativi, nutriti di odio, che approfittano dei sussidi che questi due Paesi offrono loro, e che attaccano il passato di chi ha permesso loro di liberarsi delle loro dittature…
“In Francia e in Belgio, non giustiziamo apostati, non crocifiggiamo eterodossi, non lanciamo pietre sulle infedeli, non sputiamo sugli eresiarchi…
“…questo antirazzismo si sta mordendo la coda per trasformarsi in razzismo. Basta vedere la folla arrabbiata, la bava alla bocca, per rendersi conto che abbiamo a che fare con persone venute a insultare l’uomo bianco, colpevole di aver avuto, da più di cento anni, gesti inappropriati o pensieri deplorevoli, e d’insistere, come il lupo di La Fontaine che diceva all’agnello: ‘Se non sei stato tu, è stato tuo fratello'(…) Il totalitarismo è di nuovo tra noi”.
Bencheikh lo definisce uno “stalinismo del comunitarismo (politica settaria) che fabbrica la vittimizzazione indigenista”. Chi è fuggito da Bouteflika e Gheddafi, dagli oppressori e dai tiranni di Kinshasa e Niamey “viene a sputare un odio incomprensibile a Parigi o Bruxelles”.
L’articolo di Bencheikh è solo un esempio di un coraggioso gruppo di dissidenti nel mondo islamico che difendono l’Occidente meglio di quanto non stiano facendo gli occidentali. Questi dissidenti amano la libertà di espressione e di coscienza; conoscono la differenza tra democrazia e dittatura; godono della tolleranza religiosa, del pluralismo nella sfera pubblica e criticano apertamente la pratica dell’Islam che hanno abbandonato. Sanno anche che suscitare risentimento storico e razziale è un gioco pericoloso. Per l’Islam politico, le loro voci sono eloquenti e rovinose. Per il multiculturalismo occidentale, sono “eretiche” e fastidiose. Le Figaro ha sottolineato questo paradosso: “Visti dalle loro comunità come ‘traditori’, vengono accusati dalle élite occidentali di ‘stigmatizzare'”.
In The Spectator, Nick Cohen, ha spiegato:
“Nella visione orientalista liberal del mondo l’unico ‘vero’ musulmano è un barbaro. Una batteria di insulti è lanciata su qualsiasi musulmano che dica il contrario. Essi sono ‘neoconservatori’, ‘informatori nativi’ e ‘sionisti’: sono estremisti come i jihadisti ai quali si oppongono, e forse anche peggio…”.
Come Bencheikh, il saggista algerino Mohammed Sifaoui ricorda a tutti noi che “la Mauritania del Nord Africa, è oggi il Paese più schiavista al mondo. Anche il Qatar, in Medio Oriente, lo è, così come l’Arabia Saudita, sotto lo stendardo dei Guardiani dei Luoghi santi dell’Islam”.
Ayaan Hirsi Ali, che è fuggita dalla Somalia, suo Paese d’origine, e attualmente risiede negli Stati Uniti, scrive:
“Quello che i media non vi dicono è che l’America è il miglior posto al mondo in cui essere neri, donne, gay o trans. Abbiamo i nostri problemi e dobbiamo risolverli. Ma la nostra società e il nostro sistema non sono affatto razzisti”.
Neri, donne e gay, l’apice della “intersezionalità”. Secondo Andrew Sullivan:
“‘L’intersezionalità’ è l’ultima mania accademica che sta spazzando il mondo accademico americano. In apparenza, si tratta di una teoria neo-marxista che sostiene che l’oppressione sociale non si applica semplicemente a una categoria unica d’identità – come la razza, il sesso, l’orientamento sessuale, la classe etc. – ma a tutte queste categorie in un sistema a incastro di gerarchia e potere”.
Per gli attivisti intersezionali, gli Stati Uniti sono il Paese più dispotico al mondo. Non l’Arabia Saudita né l’Iran. Ayaan Hirsi Ali, che è fuggita dalla Somalia e ha subito la mutilazione genitale, conosce meglio l’oppressione degli attivisti anti-statue. Nelle pagine del Wall Street Journal, la Hirsi Ali scrive:
“Quando sento che gli Stati Uniti sono distinti soprattutto dal razzismo, quando vedo che libri come ‘White Fragility’ di Robin DiAngelo sono in cima alla lista dei bestseller, quando leggo di giornalisti ed educatori che vengono licenziati per avere messo in dubbio le ortodossie di Black Lives Matter – allora mi sento obbligata a fare sentire la mia voce. (…) L’America sembra diversa se sei cresciuta come me in Africa e in Medio Oriente”.
Scrivendo su Le Monde e Le Point, lo scrittore algerino Kamel Daoud ha condannato questa ipocrisia. “C’è un istinto di morte nell’aria per la rivoluzione totale”, osserva Daoud.
“Secondo alcuni, essendo l’Occidente colpevole per antonomasia, non ci troviamo in una richiesta di cambiamento, ma un po’ alla volta, in una [richiesta] di distruzione, nel ripristino di una barbarie vendicativa”.
Daoud li definisce “processi antioccidentali in stile sovietico”.
“È vietato dire che l’Occidente è il luogo dove si scappa quando si vuole sfuggire all’ingiustizia del proprio Paese d’origine, alla dittatura, alla guerra, alla fame, o soltanto alla noia. Va di moda dire che l’Occidente è colpevole di tutto.”
Su Le Point, Daoud afferma che “con il grande slancio dell’antirazzismo, ritorna l’inquisizione”.
In un appello apparso su Le Monde, Daoud è stato accusato da venti accademici di Sinistra di “cliché orientalisti” e di “paternalismo colonialista”. Questa nuova accusa di razzismo serve a svergognare pubblicamente, a marchiare e a escludere un politico o un intellettuale che commenta con troppa franchezza i danni del multiculturalismo.
Zineb el Rhazoui, la giornalista francese di origine marocchina che a causa del suo anti-islamismo è diventata bersaglio di una serie di minacce di morte, di recente, ha dichiarato:
“L’unico razzismo che subisco è da parte dei nordafricani. Per gli algerini, io sono una puttana marocchina. Per i marocchini, sono una puttana algerina. Per entrambi, sono una ‘puttana degli ebrei'”.
Gli arabi minacciano altri arabi per aver detto la verità sul vero razzismo e l’islamizzazione. Sono le vittime invisibili del razzismo in Francia. La Rhazoui ha affermato che “la Francia è uno dei Paesi più tolleranti e il meno razzista al mondo” e che la vera minaccia non è il razzismo, ma il comunitarismo [l’importanza attribuita ai gruppi anziché agli individui], stigmatizzato anche dal presidente francese Emmanuel Macron.
La scrittrice iraniana Abnousse Shalmani, nata a Teheran e residente attualmente a Parigi, ha dichiarato a Le Figaro:
“Il nuovo antirazzismo è il razzismo mascherato da umanesimo. (…) Ciò che riecheggia in questo dibattito è la prigione della vittimizzazione. (…) Ne deriva che ogni bianco è cattivo – come dimostrato dall’abbattimento delle statue di Victor Schoelcher, padre dell’abolizione della schiavitù, in Martinica – e che ogni nero è una vittima”.
Mentre l’economista Thomas Piketty, nelle pagine di Le Monde, ha invitato l’Occidente a fare ammenda per il suo passato coloniale, la scrittrice franco-senegalese Fatou Diome, critica chi agita la decolonizzazione:
“È un’emergenza per chi che non sa ancora di essere libero. Non mi considero colonizzata. Il motto della colonizzazione e della schiavitù è un business”.
L'”ideologia” è semplice: si presume che il colonialismo sia ancora in azione e che le persone provenienti dai Paesi un tempo colonizzati continuino a essere oppresse, in particolare i musulmani, che si dice siano bersagli di un odio “razzista” e “islamofobico”. In questa prospettiva, “i maschi occidentali bianchi” sono sempre gli oppressori e le minoranze sono sempre vittime.
Una eminente militante antirazzista Rokhaya Diallo, ha dichiarato che, in una contrapposizione tra “dominatore” e “dominato”, la Francia è “razzista”. Si tratta di una visione che ravvisa il razzismo dappertutto, soprattutto là dove non esiste. E ha inoltre provocato in Europa numerosi disastri legati al multiculturalismo, rendendo impossibile criticare le conseguenze dell’immigrazione di massa e del separatismo islamista. Il saggista francese Pascal Bruckner ha definito questa posizione “razzismo immaginario”. È una creazione penitenziale che induce l’opinione pubblica occidentale – anche se nessuno in Occidente è schiavo o possiede uno schiavo – a credere che l’odio verso l’Occidente sia meritato.
Il confine tra questa visione marxista, in cui qualcuno deve essere sempre una vittima, è diventato poroso con l’islamismo. Nel movimento intitolato a Adama Traoré, il “George Floyd francese”, l’organizzazione SOS Racisme è alleata con i salafiti musulmani. Anche organizzazioni per i diritti umani hanno manifestato insieme alla “Unione delle organizzazioni islamiche in Francia”, considerata fondamentalista.
In un’intervista rilasciata alla rivista Valuers Actuelles, l’ex premier francese Manuel Valls ha dichiarato: “Le associazioni per i diritti umani si sono perse e hanno aperto le porte a Tariq Ramadan”. Hanno fatto questo invece di prendere le parti dei numerosi grandi riformatori musulmani. Ayaan Hirsi Ali scrive:
“Riformatori come Asra Nomani, Irshad Manji, Tawfiq Hamid, Maajid Nawaz, Zuhdi Jasser, Saleem Ahmed, Yunis Qandil, Seyran Ates, Bassam Tibi e Abd al-Hamid al-Ansari devono essere sostenuti e protetti. (…) Questi riformatori avrebbero dovuto essere conosciuti in Occidente come Solzhenitsyn, Sakharov e Havel generazioni prima. Invece, le cosiddette associazioni per i diritti umani, i politici e i media hanno preferito appoggiare l’Islam politico”.
Al contrario, un gruppo di 12 scrittori ha sottoscritto un manifesto pubblicato sul settimanale Charlie Hebdo, lanciando un monito contro il “totalitarismo” islamico:
“Dopo aver vinto il fascismo, il nazismo e lo stalinismo, il mondo si trova di fronte a una nuova minaccia totalitaria globale: l’islamismo. Noi, scrittori, giornalisti, intellettuali chiamiamo alla resistenza al totalitarismo religioso e alla promozione della libertà, delle pari opportunità e della laicità per tutti”.
Tra i 12 firmatari, otto provenivano dal mondo islamico.
Questi intellettuali musulmani anti-islamisti non sono nati liberi: sono fuggiti dalle dittature per stabilirsi nelle democrazie, dove subiscono ancora minacce di morte e abusi, ma dove sono molto più liberi e più orgogliosi dell’Occidente di quanto non lo siano quegli occidentali che conoscono solo la libertà, ma che ora provano un terribile senso di colpa – soprattutto per le cose che non hanno fatto.
L’Occidente non solo volta le spalle ai nuovi mercati di schiavi, ma il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite di fatto accoglie Stati come il Sudan, dove decine di migliaia di donne e bambini di prevalentemente villaggi cristiani sono stati ridotti in schiavitù durante i raid jihadisti; il Kenya e la Nigeria, dove l’autunno scorso la polizia ha salvato centinaia di uomini e di ragazzi incatenati in una scuola islamica; il Pakistan, dove i cristiani sono condannati alla servitù, e la Mauritania, dove due persone su 100 sono ancora tenute schiave. È lo stesso Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite che, ora, grazie alle pressioni esercitate dai Paesi africani, vuole indagare sul “razzismo sistemico negli Stati Uniti”. Il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha osservato:
“Se il Coniglio fosse onesto, riconoscerebbe i punti di forza della democrazia americana ed esorterebbe i regimi autoritari di tutto il mondo a prendere esempio dalla democrazia americana e a far rispettare alle loro nazioni gli stessi standard elevati di responsabilità e trasparenza che noi americani applichiamo a noi stessi”.
È giunto il momento che gli Stati Uniti smettano di finanziare le Nazioni Unite, un’istituzione che viene utilizzata per perpetuare l’ingiustizia, e non per fermarla.
I veri mercanti di schiavi e i razzisti – coloro che credono che le società e i valori occidentali non dovrebbero affatto esistere – verosimilmente guardano l’autoflagellazione dell’Occidente e approvano con esultanza.
Giulio Meotti, redattore culturale del quotidiano Il Foglio, è un giornalista e scrittore italiano.