L’Italia in presa diretta

L’Italia in presa diretta. Intervista a Francesco Rosi

Ha vissuto quasi un secolo di storia italiana, e gran parte l’ha raccontata nei suoi grandi film – da La sfida a Le mani sulla città, da Cristo si è fermato a Eboli a Cadaveri eccellenti, da Lucky Luciano a Il caso Mattei – inaugurando il filone dei film inchiesta. Erede del grande cinema neorealista, uno dei maggiori registi italiani di tutti i tempi si racconta, tra incontri privati e riflessioni sull’Italia di ieri e di oggi.

Francesco Rosi in conversazione con Curzio Maltese, da MicroMega 6/2012

Quando riguardo i tuoi film penso che i problemi del nostro paese non siano cambiati poi molto da allora. Anzi, sono degenerati quelli che vedevamo già negli anni Sessanta, quando hai cominciato a fare cinema. Sembra di osservare la genesi di tutto quello che è successo in Italia. È come se avessi filmato progressivamente il declino.

La corruzione delle istituzioni in Italia è cominciata da tanto tempo. Così come il potere della mafia, che poi, piano piano, è stato accompagnato dal potere sempre più crescente della camorra. La camorra, una volta, era strettamente legata al Sud: il mio primo film che ne parlava era ambientato nel mercato ortofrutticolo di Napoli [La sfida, 1958]. Oggi invece sta diventando quasi più minacciosa della mafia.

Purtroppo la camorra e la ’ndrangheta sono il settore del paese che ha colto meglio i meccanismi della globalizzazione.

Ormai l’attività economica italiana non riesce più sottrarsi al potere della mafia e della camorra.

È cresciuta anche la complicità della politica. Da questo punto di vista i tuoi film andrebbero proiettati nelle scuole. Le mani sulla città è perfetto per raccontare il sistema. Perché nei tuoi film il sistema è sempre più potente dei singoli. Non è solo una questione di responsabilità individuale. A differenza del modo in cui si parla oggi di corruzione, quel populismo che ha molto successo e che ha bisogno di identificare un nemico fisico, il banchiere, il politico corrotto, tu identifichi un sistema malato nel quale anche l’eventuale ribellione dell’individuo viene completamente annichilita, assorbita. La tua è un’analisi molto più moderna.

In effetti quei film hanno anticipato ciò che è poi successo nel paese. E sono ancora attuali. Quando mi chiedono: non ti viene voglia di fare un film sull’Italia di oggi, su ciò che sta succedendo? Io rispondo che questi argomenti li ho trattati per tempo. Non avrebbe senso ripetersi. Bisogna andare avanti. Bisogna cercare di capire come si può uscire da questa specie di baratro nel quale siamo finiti.

Nei tuoi film però c’era anche la speranza e l’impegno a uscirne. Oggi c’è solo rassegnazione, anche nel cinema. Lo sguardo dei film italiani sui fenomeni sociali e politici è sempre più rassegnato, anche in quelli più belli. Penso ad esempio a Gomorra, che a me è piaciuto molto, ma fotografa una situazione senza via d’uscita. Il tuo, invece, era un cinema di lotta.

Gomorra è un bellissimo film. Ma forse avrebbe dovuto interessarsi un po’ di più al contesto, al potere che ha creato questa popolazione di corrotti.

In passato ho scritto diversi articoli per dire quanto sarebbe importante investire nella scuola per smuovere la stasi malefica in cui vive il Sud Italia. La scuola è stata trascurata nella maniera più totale dalla classe dirigente del paese, non solo quella politica. Questi ragazzi dovrebbero andarci dalla mattina alla sera, non tanto per studiare delle materie, ma per imparare come si sta nella società. Quando ho scritto quegli articoli, a Napoli, Palermo, Catania, a scuola non ci andavano proprio. Perché a un certo punto la camorra metteva in mano a quei ragazzi un po’ di soldi e la possibilità di diventare importanti, in una società in cui conta solo la quantità di denaro che possiedi. La scuola ha una funzione fondamentale anche da un punto di vista sociale, perché i ragazzi che ci vanno portano poi la loro esperienza in famiglia. Se non riusciamo a creare un rapporto tra i giovani e gli adulti, che società costruiamo? In cosa possono credere?

L’infanzia, oggi, rischia di sparire. In fondo parliamo di un’invenzione del XX secolo, collegata alla creazione dello Stato sociale, alle lotte degli operai, al divieto di lavoro minorile, tutte conquiste recenti. I bambini sono considerati dei piccoli adulti, come nel Medioevo, solo che allora erano dei piccoli lavoratori, adesso invece sono dei piccoli consumatori. In questo meccanismo fa comodo non investire nella scuola, privatizzarla, far entrare le grandi imprese e le multinazionali nella gestione dell’istruzione pubblica. Tutto questo rischia di sconvolgere il rapporto tra le generazioni. Tu parlavi dei ragazzi dei quartieri: lì c’è una doppia perdita di controllo, da parte della scuola ma anche da parte della famiglia.

Soprattutto da parte della famiglia, direi.

A volte questi bambini, arruolati dalla camorra, guadagnano più dei loro genitori.

Quindi la famiglia li spinge a mettersi nelle loro mani. La verità è che per capire come stanno le cose bisogna andare per le strade, bisogna vedere come vivono questi ragazzini. Non hanno altre speranze perché non vengono coltivate.

Una volta sono andato a Nisida, Napoli, dove c’è un istituto di pena per i ragazzi traviati. Sono rimasto sbalordito dalla consapevolezza con cui parlano del loro rapporto con la vita. È un rapporto fondato sul potere. Cercano solo quello, fin da bambini. Ecco, Gomorra cosa ti fa vedere? Che questi ragazzi sognano solo di avere un po’ di potere attraverso le armi.

Parliamo di Napoli, che è un grande mistero della storia italiana. È la città che probabilmente ha pagato il prezzo più alto all’unità d’Italia. È stata una metropoli, una grande capitale culturale. Ha vissuto stagioni gloriose, di rinascita, anche da un punto di vista politico, come l’epoca di Valenzi. Adesso sta vivendo una nuova fase. Ma lo slancio che i napoletani hanno avuto in vari periodi si è come scontrato contro un muro di gomma, per cui alla fine la città è ricaduta, sempre peggio, nei problemi che aveva già, la corruzione, la criminalità.

È come se oggi non credessero più veramente in una rinascita: questa è la verità. Lo senti dalla rassegnazione nella quale sono caduti molti napoletani, anche gente di grande valore intellettuale.

Eppure la cultura napoletana è la più politica e la più combattiva che l’Italia abbia espresso.

Questa è una delle illusioni che hanno segnato il mio percorso di vita. Ricordo che una volta ci incontrammo a Napoli, molti anni fa, anche con Dino De Laurentiis, per ragionare sul modo in cui rilanciare la città. Parlammo della Mostra d’Oltremare, che è un territorio immenso, attrezzato, ci sono piscine, teatri. Ho detto: ma perché non la facciamo vivere questa realtà? Qui può venire anche la voglia a qualche imprenditore di fare cinema. Invece no, il cinema si è sempre fatto fuori città.

A volte le cose funzionano: per esempio la sede Rai di Napoli, che è molto ambita perché si lavora bene, con un’alta qualità dei lavoratori. Ci sono state anche grandi stagioni culturali, teatrali, ma sono dei fuochi d’artificio, poi si esauriscono.

Sì, i festival sono utili, ma sarebbe più utile indurre i ragazzi a frequentare una scuola in cui apprendere che cosa è il lavoro e perché è importante la cultura. Abbiamo una tale responsabilità sulle spalle! Pensiamo ai bambini che crescono in certi quartieri di Napoli: quando avranno 14-15 anni saranno una forza operante della camorra. Tutti armati.

Girando Napoli per realizzare dei servizi sono rimasto impressionato dall’intelligenza di questi bambini. Lo stesso Garrone li ha presi dai quartieri per fare Gomorra. Bambini con facce meravigliose e anche bravissimi come attori. Hanno una tale prontezza e conoscenza della vita. Poi però la appaltano alla criminalità. Sarebbero una grande risorsa per la città e per il paese.

Mancano le istituzioni che potrebbero far fruttare l’intelligenza e la forza di questi ragazzi, che hanno un’enorme volontà. Bisognerebbe saperla incanalare perché produca qualcosa di buono per la società.

Ci sono state varie stagioni politiche interessanti a Napoli. Il sindaco Valenzi, il primo Bassolino, adesso c’è de Magistris. Tu hai fiducia in de Magistris?

Non lo conosco bene. Mi ha telefonato per farmi i complimenti per il premio alla carriera del festival di Venezia, e mi ha detto: «Venga a trovarmi, così parliamo, facciamo». Io ho risposto: «Volentieri». Ma ormai non ho più l’energia creativa di una volta. È vero però che ci deve pur essere qualcuno in cui credere dentro le istituzioni italiane.

Uno nel quale si può credere, che è stato decisivo negli ultimi anni, è il tuo amico Napolitano.

Non ci fosse stato lui!

La mia impressione è che se non ci fossero stati Scalfaro, Ciampi e Napolitano, saremmo tornati al fascismo. Perché quello era il clima che si respirava nel periodo più «splendido» del berlusconismo. C’era la tendenza ad abbattere ogni regola. Napolitano è stato decisivo nel mantenere le istituzioni democratiche nei periodi più bui. È interessante che un uomo di quella generazione, della tua generazione, abbia lavorato tanto per il futuro, rispetto ad altri politici molto più giovani la cui visione si è rivelata limitata. Napolitano ha tenuto assieme il paese, Nord e Sud, in un passaggio difficile. È un uomo del Sud, culturalmente napoletanissimo, ma è molto popolare anche nel Nord Italia.

Conosco Napolitano da quando eravamo ragazzi, perché siamo andati nella stessa scuola. Lui aveva tre anni meno di me e di La Capria, un altro personaggio molto importante per la cultura napoletana. Persone nelle quali puoi credere.

Ciò che spaventa è che non ci sono più personaggi capaci di incarnare così efficacemente il rispetto per le istituzioni, l’amore per la democrazia.

Il significato della democrazia.

Quelli come loro e come te hanno sempre avuto anche una grande capacità di rivolgersi al popolo, di ascoltare gli umori dell’epoca e poi di comunicare, di agire, perché la popolarità non deve essere un fine, ma uno strumento. Per te essere un regista popolare significava poter dire tante cose sul tuo paese e la tua città. Adesso si è invertito il meccanismo. Si fa cinema per diventare popolari.

Il cinema ti permette di riconoscerti in quei personaggi che fai vivere sullo schermo. Ma questo significa che la gente poi si identifica con loro, a prescindere dal fatto che siano positivi o negativi. Questo comporta una responsabilità.

Non trovi che questa coscienza etica sia mancata in certi talenti cinematografici americani? Anche nei tuoi film i grandi mafiosi, i grandi corrotti, hanno un loro fascino, però nelle tue opere c’è una tenuta etica tale per cui non è così facile identificarsi con i criminali. Lucky Luciano, per quanto sia interpretato in maniera straordinaria da Volonté e sia raccontato benissimo, è comunque un personaggio nero, grazie allo sguardo del regista.

Il cinema americano non si poneva il problema morale che si sono posti gli autori italiani. I film di De Sica, Umberto D., Ladri di biciclette, sono uno specchio per riconoscersi nei valori morali della vita. Petri, Scola, io, ci siamo identificati in quei film.

Anche grazie alla commedia all’italiana si sono dette verità incredibili. Nei film di Monicelli puoi trovare un’intelligenza interpretativa e creativa enorme, oltre a una grande moralità.

È questa eticità che è progressivamente franata nella società italiana, nella politica, nella cultura, nel cinema. Il paese è diventato cinico. C’è una specie di resa. E così torniamo al discorso che facevamo su Napolitano. Rispetto all’amoralità diffusa della classe dirigente italiana, la figura di Napolitano viene percepita come portatrice di valori etici.

Voi avevate una visione che non era affatto moralistica, bacchettona, ma che era potentemente etica. Risi e Monicelli erano bravissimi nel raccontare la degenerazione, i «mostri» italiani.

Il cinema italiano di quel periodo è stato grande e secondo me bisognerebbe fare qualcosa per riproporlo in tv in maniera ordinata, inserendolo in un discorso culturale e morale.

Per la mia generazione (50 anni) la formazione politica vera, al di là dei gruppi e dei movimenti, è stata andare al cinema, e vedere i film del dopoguerra, dal neorealismo fino agli anni Settanta.

Quello che dici è molto vero. Guarda, io ricordo una sera in cui eravamo a Taormina con Altman. Sul grande schermo passava un’immagine di Ladri di biciclette e io mi ero mosso per andare sul palco. Altman mi ha chiamato, fregandosene del pubblico, della gente, e ha detto: questo è il più grande del mondo, ha fatto il film più grande! E aveva ragione. Ma quanti film sono stati messi da parte, ignorati? Hai più visto per esempio Germania anno zero? L’ho rivisto ultimamente e sono rimasto sconvolto.

Anche i film cosiddetti minori, degli autori popolari, sono strepitosi, uno più bello dell’altro.

Il cinema non ha paragoni. Sì, un grande libro è un grande libro, ma tu in un grande film ti riconosci in un’ombra che diventa vita, un personaggio che si muove, che parla, che pensa. Il potere del cinema è una cosa enorme.

Ciò che oggi è più difficile, al cinema come in tutti i lavori, è il passaggio di esperienze. Tu hai cominciato che eri ragazzino dal massimo livello, facendo l’assistente.

Ho fatto anche l’apprendistato con grandi sceneggiatori come Sergio Amidei e Suso Cecchi D’Amico.

Hai lavorato con Luchino Visconti.

Sono stato suo assistente per tre film. Visconti era un uomo di grandissimo valore, anche etico.

C’era anche un certo piacere nel trovare un giovane di talento come eri tu e coinvolgerlo, farlo crescere.

Come no.

Secondo te cosa ha provocato il declino del cinema italiano? È stato un problema industriale o di tipo artistico?

È stato principalmente un problema industriale. A un certo punto ha prevalso un cinema più leggero, più accessibile, più divertente. Il pubblico lo ha preferito. Ma quel tipo di cinema è stato anche fatto da alcuni autori in maniera egregia: pensiamo appunto a Risi, a Comencini, a Petri, a Scola. Loro hanno fatto la commedia all’italiana, ma hanno anche affrontato dei problemi etici, i problemi del paese. L’altra sera, per caso, mi è capitato di vedere un pezzo di Pane amore e fantasia. Questi erano film che raccontavano l’Italia: il pubblico, oltre a divertirsi, si riconosceva, nel bene e nel male.

I tuoi film hanno girato il mondo raccontando realtà spesso molto italiane. Adesso i film italiani difficilmente ci riescono. Quelli che hanno girato il mondo e che hanno avuto successo in questi ultimi anni parlano di un’Italia al passato: La vita è bella raccontava gli anni Trenta, Mediterraneo gli anni Quaranta, Tornatore l’Italia del dopoguerra. Il problema è che il paese non è più interessante, come quando la raccontavi tu, fino agli anni Settanta-Ottanta? Oppure è il nostro cinema che non riesce più a raccontare il paese, e quindi diventa meno interessante?

Credo che siano tutte e due le cose. Ma è evidente che c’è stata, da parte del pubblico, la voglia di ritrovarsi a vedere dei film più leggeri, più divertenti, alimentata da un discorso di tipo industriale, commerciale.

In questo la televisione quanto ha contato? Noi avevamo un grande cinema, ma anche una grande televisione pubblica, perché la Rai è stata per anni una tv di grandissimo livello. Poi con la concorrenza delle private, in particolare di Berlusconi, il livello si è molto abbassato. In più Rai e Mediaset hanno cominciato a governare l’industria cinematografica.

I soldi venivano da lì.

Questo secondo te ha avuto un’influenza sull’abbassamento generale dei gusti del pubblico?

Credo di sì. L’abbassamento però lo ritrovi quando la gente comincia a riconoscersi anche negli aspetti più deteriori di ciò che vede. Perché film belli da vedere, che trattano anche temi importanti, ne sono stati fatti di recente. Penso ad esempio a Romanzo criminale di Michele Placido. A un certo punto però un film dovrebbe suscitare nello spettatore il desiderio di capire meglio quello che succede e magari poterlo anche condannare. Questo è il problema. Ci sono dei film ai quali tu assisti solamente, ti diverti e basta. Quando vedevi Ladri di biciclette, ti ponevi un sacco di domande sulla società, sull’uomo, sui rapporti tra un padre e un figlio, su un paese che aveva dei difetti e sognava di poterli colmare. Oggi questa cosa si è un po’ persa.

Lo vedi all’uscita dalle sale. Che il film sia bello o brutto, la gente esce silenziosamente e se ne va in pizzeria. Io appartengo a una generazione che ha fatto molta ironia sul dibattito dopo il film. Ma quando uscivi dal cinema il dibattito lo facevi con gli amici. Parlavi in continuazione, per giorni, del film che avevi visto.

Il cinema era un’attività culturale molto sentita e anche molto importante. Lo capisco da come la gente si ricorda certi film. Si ricordano anche cose mie che non erano affatto facili. Cristo si è fermato a Eboli non era un film che andavi a vedere per divertirti. Andavi per riflettere, per riconoscere una società arretrata, che era quella del Sud dell’Italia, di mezza Italia. Non era mica solo per merito mio. Anzi, era soprattutto merito di Carlo Levi che aveva scritto quel capolavoro. Il fatto è che una volta c’era voglia di farli quei film.

A proposito di Cristo si è fermato a Eboli: perché secondo te è tramontata la questione meridionale? Il più grande problema italiano è ancora la differenza tra Nord e Sud. Non c’è un paese ricco al mondo in cui esiste questa differenza. La Germania si è unificata vent’anni fa, ma hanno già ridotto la distanza. Noi invece l’abbiamo aumentata. Eppure stiamo insieme da 120 anni. Di questione meridionale non si parla più. Si parla di questione settentrionale. Si è scelto di abbandonare mezzo paese, ormai in buona parte nelle mani della criminalità.

È un problema che andava previsto e affrontato. Perché la criminalità non è nata così com’è oggi. Oggi la criminalità governa questo paese, non esito a dirlo, lo governa! E non solo il Sud.

Ormai ci sono comuni della Val d’Aosta, della Lombardia, della Liguria infiltrati dalla mafia, dalla ’ndrangheta, dalla camorra. Non solo non si è combattuto il crimine nel Sud, ma lo si è esportato nel Nord e oggi è molto potente. Film come Cristo si è fermato a Eboli fotografavano una situazione drammatica, ma testimoniavano anche un paese che aveva voglia di affrontare quel problema.

Quello di Levi è un grandissimo libro. Ho aspettato parecchi anni per poterlo trasformare in un film. Ci aveva pensato anche De Sica, credo pure Rossellini, poi Visconti, ma avevano abbandonato l’idea perché allora si cominciava a credere solo nei film che avessero il «plot». Nel mio film il plot non c’era, però c’era un grande attore, Gian Maria Volonté, che interpretava un grandissimo personaggio, Carlo Levi, il quale provava a misurarsi con la cultura di mezza Italia, quasi ignorata dall’altra metà.

Hai avuto coraggio ad affrontare un’avventura del genere. È facile sbagliare un film partendo da un bellissimo libro.

Un altro lavoro che aveva un retroterra letterario importante era Cadaveri eccellenti, da Il contesto di Sciascia, un grande libro, ed è venuto fuori un film che va ancora in giro.

Anche quello molto moderno nello sguardo. A partire dalla durezza con cui viene raccontata la classe dirigente.

Una classe dirigente persa, rassegnata.

Cadaveri eccellenti fu oggetto anche di molte discussioni.

Sì, perché era il periodo in cui si discuteva del compromesso storico. Molti comunisti lo osteggiarono, perché secondo loro il film accusava il Pci di rassegnarsi all’idea del compromesso. Mentre altri capirono che era interessante proprio perché affrontava questo discorso. Quando uscì il film, Aggeo Savioli, che è un bravo critico e oltretutto è un amico, mi disse: non si può rappresentare così il Partito comunista, come se si stesse arrendendo a un potere degenerato. Ma mi difesero anche molto. Mi difesero sia Renato Guttuso che Antonello Trombadori.

In realtà Cadaveri eccellenti racconta molto bene quello che poi è accaduto con la fine della Prima Repubblica.

È un film che visto oggi fa una certa impressione, perché dici: ma allora non è successo niente?

I tuoi film hanno spesso alimentato discussioni.

Molte, sì.

Anche sulle differenze tra destra e sinistra.

Molti mi accusarono di essere troppo socialista. Spesso mi sono trovato d’accordo con le scelte del Pci, ma mi sentivo più vicino al riformismo.

Il socialismo aveva una visione più libertaria della società rispetto al comunismo.

Era quella la grande differenza… Mi viene in mente un altro film che, secondo me, è ancora interessante: Tre fratelli. Non so se te lo ricordi.

Sì. In quello il plot c’era, ed è stato abbondantemente copiato.

C’è un fratello giudice, un altro operaio e un terzo che faceva l’educatore in una scuola per ragazzi traviati. Qualcuno mi accusò di aver scritto dei dialoghi che erano, praticamente, ciò che si leggeva ogni giorno sui giornali. Ma perché, che c’era di male? Vuol dire che quegli argomenti appartenevano alla nostra realtà quotidiana.

Questa è una cosa interessante del tuo cinema. I tuoi film, quando uscivano, sembravano legati alla stretta attualità. In realtà, rivisti nel tempo, rimangono moderni. Tanto più erano calati nel loro presente, tanto più paradossalmente sono attuali, presenti, oggi. Probabilmente l’attualità non sta nell’oggetto del racconto, ma nel modo di raccontare.

Forse proprio per questo negli ultimi anni mi sono dedicato al teatro: ho portato in scena tre commedie di Eduardo De Filippo, che hanno avuto un notevole successo. Da Napoli milionaria volevo trarre anche una pellicola. Però alla Rai dicevano: abbiamo già il film con Eduardo e il film con Totò. Io dissi che volevo fare un’altra cosa, ispirata sì alla commedia di Eduardo, ma anche a un grande libro sulla Napoli dell’immediato dopoguerra. Nel film si raccontava anche della permanenza di Eduardo in un campo di concentramento tedesco, si raccontava della moglie che andava in giro per Napoli a cercare la penicillina per la bambina che altrimenti sarebbe morta. Quindi sarebbe stato un film molto articolato, una cosa tra il cinema e il teatro. Ma non se n’è fatto niente.

Rimettendo mano alle sue opere, mi ha colpito la capacità di De Filippo di raccontare la piccola borghesia, che allora era un settore della società, adesso invece è la sua totalità. Tutti ormai ragionano così.

Sono ancora più universali di quando le ha scritte… Un altro tuo film che secondo me è impressionante per la forza del racconto è I magliari. Un film sul lavoro, sui rapporti tra gli uomini, sull’immigrazione.

Mi criticarono perché c’era Sordi. Dicevano: ma come, hai fatto un film coraggioso, una sfida, e ci metti Sordi? Ma Sordi era un grande attore. E infatti è stato rivalutato grazie a quel film.

Sordi lì è straordinario appunto perché non fa Sordi. Infatti. Lo fa in un paio di momenti e basta.

È un attore geniale, meraviglioso, però per quindici anni…

… ha fatto Sordi.

Diretto dai grandi, da te, da Fellini, da Monicelli, era un’altra cosa rispetto a quando si dirigeva da solo. Ha un po’ rovinato il nostro cinema, perché poi tutti volevano rifare la stessa cosa. Tra l’altro ha inaugurato il pessimo andazzo degli attori che dirigono se stessi. Soprattutto i comici. Il che non ha migliorato la qualità del cinema italiano.

Adesso questa cosa è molto peggiorata.

Sì, adesso tutti quelli che hanno fatto tre puntate in televisione si fanno un film, in genere brutto, dove rifanno le stesse cose viste in tv.

Si inventano registi.

Pensando di fare come Sordi.

Il magliaro è un personaggio incredibile. Una specie di lestofante, che però, in quegli anni, non arrivava ancora ad essere proprio un criminale. Poi, dopo, lo è diventato anche lui, come tutti.

Nei bellissimi film con Gian Maria Volonté hai affrontato direttamente il personaggio del criminale. In Lucky Luciano lui fa una cosa incredibile, perché si trattava di una figura difficile da impersonare.

Non era il solito film di mafia o di gangster. È uno dei primi tentativi di misurarmi anche con la psicologia del personaggio. Perché di solito nei miei film c’era più che altro la psicologia degli ambienti, dei luoghi.

Ma l’hai conosciuto Lucky Luciano? Hai potuto incontrarlo?

No. L’ho solo visto a Napoli in un paio di occasioni. Ma era proprio come lo ha fatto Volonté. Abbiamo avuto anche l’approvazione della sua ultima amante, una signora napoletana, che aveva amici nella mala. Mi vennero a chiedere di farla incontrare con Volonté e me la portarono sul set. Lui venne a sedersi vicino alla signora, ancora con il cappello in testa, il cappotto, e non parlava, non diceva niente. Lei, dopo un lungo silenzio, si girò verso di me e disse in napoletano: è isso.

Cosa ti spinse a fare quello studio psicologico? Quale era il tratto di Lucky Luciano che ti colpiva al punto da volergli dedicare un film?

Il suo silenzio.

Bella risposta.

Mi diede una mano Lino Jannuzzi, uno che conosceva bene l’ambiente. Andammo anche a New York, ed e lì che presi Charles Siragusa, il poliziotto che aveva fatto la guerra a Luciano per tutta la vita. Mi piacque l’idea di realizzare un film in cui c’era questo personaggio che non agiva, ma guardava. Sì, anche quello è un film che consiglio di vedere.

Tu ti sei occupato di misteri veri, ancora irrisolti.

Grazie a Il caso Mattei sono venute fuori molte cose.

Quello è un altro buco nero della storia italiana. Le ipotesi si sono moltiplicate. Pasolini è morto mentre scriveva un romanzo in cui affrontava l’argomento. È un passaggio cruciale della storia italiana e dei rapporti tra il nostro paese e gli Stati Uniti.

Non si sapeva ancora se Mattei fosse morto per un incidente o se fosse stato ucciso. Poi scomparve De Mauro, al quale avevo chiesto di farmi un resoconto delle due ultime giornate di Mattei, passate in Sicilia, quando si inauguravano dei pozzi di estrazione dell’Eni. Non ebbi più notizie da lui. Non mi telefonò più. E si seppe che era stato rapito. La sua sparizione è rimasta un mistero.

Nel tuo film Mattei è rappresentato come un uomo estremamente pragmatico, ma anche come un utopista, perché in fondo lui cercava per l’Italia un grado di indipendenza, di libertà, che era storicamente impossibile in un paese comunque colonizzato.

Lui andava avanti imperterrito e gliel’hanno fatta pagare. Il fatto che si mettesse d’accordo direttamente con i paesi che producevano il petrolio, non era una cosa che poteva piacere alle Sette Sorelle.

Quello è un film che mi è venuta voglia di fare all’improvviso. L’ho realizzato velocissimamente. L’ho girato come se fosse un documentario. Quando sono stato in Africa, per le riprese, eravamo cinque-sei persone, senza il dolly 1 (il dolly lo faceva a mano il mio grande operatore Pasqualino De Santis), in mezzo alle dune del deserto. Lì Gian Maria ha forzato un po’ la recitazione. Una volta Indro Montanelli disse una cosa molto bella: che Mattei avrebbe voluto essere come lo aveva rappresentato Volonté.

Che tipo di metodo utilizzava Volonté?

Era molto serio nella preparazione dei suoi film. Io gli davo la sceneggiatura man mano che era pronta, lui se la studiava e la copiava a mano per ricordarsela. Quando giravamo Cristo si è fermato a Eboli, non voleva andare in albergo, voleva stare con gli operai. Forse la cosa era un po’ demagogica. Ma era comunque un grandissimo attore. Un creatore.

E poi curava molto i dettagli. Vedendo i suoi film molte volte, dopo un po’ noti i particolari, come usava le mani, come camminava.

A un certo punto, in una scena in un motel dell’Agip, notai che camminava con i piedi un po’ piatti. Volonté aveva visto una fotografia di Mattei sotto una tenda, con dei maggiorenti arabi, in cui stava seduto con i piedi divaricati e lì notò che aveva i piedi piatti…

I film che hai fatto ti hanno esposto a una marea di critiche, perché prendevi subito posizione. Noi abbiamo passato vent’anni con Berlusconi, ed è uscito solo un film su di lui, Il Caimano, dopo anni, un film «laterale». Su quello che è accaduto negli ultimi vent’anni in Italia, o su Tangentopoli, non sono uscite pellicole. Tu invece facevi film a impronta, rischiando di sbagliare anche clamorosamente, di prendere un abbaglio. Quasi tutti i tuoi film erano inchieste in corso.

Questo lo devo anche alla fiducia che aveva in me il produttore Franco Cristaldi. Eravamo molto amici e ci rispettavamo l’un l’altro. Quando gli spiegai che volevo fare un film su Mattei disse: benissimo, vai. Mi toccò inventarmi tutto, perché c’era solo un libro allora che parlava del probabile assassinio di Enrico Mattei.

Il film ha anche molto condizionato i libri che sono stati scritti dopo. Mattei in seguito è stato percepito come una figura anti-sistema. Anche in quel caso la sinistra non colse la novità. Tu sei considerato una personalità importante della sinistra italiana, però hai avuto rapporti molto conflittuali con questo mondo.

Sì, certo. Anche con Craxi ho avuto dei rapporti conflittuali. Ho fatto un film nel quale si affrontava la possibilità di legalizzare la droga, nel periodo in cui lui voleva mandare in galera tutti quelli che si drogavano. Gli dissi: ma se vanno tutti in galera, come li curiamo? Quel film è stato molto osteggiato. Craxi non venne alla proiezione del film e non fece fare neppure la critica.

Come erano i tuoi rapporti con Craxi?

All’inizio ci credevo.

Aveva una personalità interessante.

Molto. Credo sia una figura sulla quale si ritornerà.

Questo lo diceva anche Vittorio Foa, che pure era stato in forte polemica con lui. Mi diceva sempre: Craxi comunque ha capito molte cose. Poi il danaro, il sistema…

Soprattutto il sistema.

Io facevo il cronista nel periodo dei processi. Ricordo benissimo quando Craxi andò al Palazzo di Giustizia di Milano a deporre. Di Pietro, che era piuttosto spavaldo con tutti i politici, con Craxi era un agnellino.

È presumibile che Craxi i soldi li abbia usati per fare politica. In qualche modo lui ha rivelato il fatto che il sistema non poteva essere cambiato.

Senza alcun dubbio. E lo stiamo vedendo ora, no? Ormai quando leggo i giornali mi viene… Non so, non mi piace scontrarmi con quello che leggo. Proprio non mi piace. Perché è il segno di un paese che forse rimarrà sempre così.

Sai cosa trovo veramente cambiato negli anni? La progressiva infantilizzazione dei cittadini e del pubblico. E questo attraverso tutti gli strumenti, i giornali, la politica, il cinema. Lo vedo anche con i nuovi fenomeni politici, come Grillo. Partono dalla stessa infantilizzazione del pubblico di Berlusconi: siete dei bambini, non avete responsabilità, non è colpa vostra, la classe dirigente è corrotta, ma voi non c’entrate, vi hanno imbrogliato. Troppo semplicismo. Noi italiani abbiamo inventato il fascismo, ma già il giorno dopo la liberazione era tutta colpa dei tedeschi. Abbiamo votato per anni Berlusconi, che ci ha portato al disastro attuale, ma il giorno dopo il paese si è autoassolto dal fatto di essere stato berlusconiano.

È assolutamente vero.

La stessa cosa accade con i film. È diventato tutto un cinema per bambini. Tranne il cinema per bambini, che è fatto molto bene. Negli ultimi anni, crescendo mio figlio, ho visto tanti cartoni animati bellissimi, pieni di valori etici. Poi vedi film teoricamente per adulti che trattano lo spettatore come un bambino. Quello che è veramente cambiato nel cinema italiano, al di là dell’aspetto etico, è il modo di trattare gli spettatori. Nel tuo cinema ci si rivolge a persone adulte, responsabili di ciò che accade, anche del male. È troppo facile e furbescamente popolare dire che la gente non ha colpa. Perché non dovrebbe avere colpa di una classe dirigente che in fondo rispecchia atteggiamenti diffusi? Quando vai nei quartieri, i ragazzini si identificano nell’uomo di successo, si identificano anche nel delinquente a cui vengono date responsabilità istituzionali, e dicono: quello lì, che è un mafioso, è rispettato da tutti. Chi ha offerto loro in questi anni un sistema di valori alternativo a «quello lì»?

Ormai è come se la gente si fosse abituata all’idea che il potere giustifica tutto. Che appartiene a chiunque sia capace di mantenerlo. Diventano degli ammiratori del potere.

Diciamo la verità: il potere, generalmente parlando, fa schifo.

Sì, è così.

Ti voglio chiedere ancora un cosa. Quando vai in giro per il mondo, in America, in Cina, in Sudamerica, in Europa, a parlare dei tuoi film, come percepisci l’immagine che hanno del nostro cinema e del nostro paese?

In giro per il mondo hanno molto rispetto per un certo cinema italiano, non certamente per tutto. Però una volta questo rispetto era molto più tangibile, era un’adesione culturale, era ammirazione.

Per alcuni anni abbiamo rappresentato veramente un’alternativa al cinema americano.

Senza alcun dubbio.

Era un’alternativa di valori e di estetica. Anche i nostri attori, Gian Maria Volonté, Mastroianni, Sordi, la Magnani, erano completamente diversi dai divi americani. È stata una perdita per noi, ma anche per loro, in fondo, perché non avere un’alternativa ti spinge a essere più banale, più convenzionale, a rifare sempre gli stessi prodotti. Oggi dalle nostre scuole di cinema escono ragazzi molto ben preparati che però seguono una specie di manuale americano del cinema: come se ci fosse un unico canovaccio uguale per tutti. È anche curioso che noi facciamo film politici imitando quelli americani, piuttosto che ispirarci alla nostra tradizione.

Chi sta facendo in America dei film molto interessanti è Clint Eastwood.

Il quale dice di aver imparato tutto da Sergio Leone.

E come no! Una volta mi volle incontrare. Io andai, ma non ci dicemmo niente. Mi guardava e basta. E io pensavo: ma che voleva fare, voleva vedere com’ero fatto? Simpatico, però, un bell’attore e magnifico regista.

C’è in questo momento una storia che ti piacerebbe raccontare, che ti potrebbe riportare dietro la macchina da presa?

Qualche anno fa mi era venuta voglia di raccontare Cesare e Bruto, cioè la politica e l’idealismo, prendendo anche spunto da un film che volevo fare molto tempo fa su Che Guevara e Fidel Castro. Ho anche lavorato allo script con La Capria e con uno storico, Fulvio Sampoli. Poi la voglia si è attutita, perché non mi andava di fare il film con attori di lingua inglese. Adesso, non saprei. Qualche volta mi dico: ma è possibile? Ho davvero chiuso? Sì, probabilmente ho davvero chiuso.

Però è affascinante l’idea di raccontare il rapporto tra Fidel Castro e Che Guevara. La storia è piena di queste alleanze tra rivoluzionari dove uno diventa un po’ Stalin e l’altro va a morire.

L’ho anche preparato questo film. Sono andato a Cuba, ho parlato con Castro. Volevo iniziare con la rivoluzione cubana, i 12 sulle montagne. Ci sono ritornato recentemente, tre, quattro anni fa. È sempre un argomento che mi appassiona molto. E che ho riversato nella storia di Cesare e Bruto. Ogni tanto mi torna in mente. Sarebbe bello farlo tra le pietre vere di Roma. Un film piccolo. Nel quale non si vedono le battaglie. Come ho fatto, in parte, con La tregua, in cui ho deciso di non far vedere i mucchi di cadaveri. Certo, mostro i bambini mandati nei forni, il fumo che esce dai camini, ma non ho voluto fare come Spielberg, che ha riempito i teatri di comparse dei detenuti di Auschwitz. Non ci credi alle comparse di Auschwitz. A quel punto è meglio usare immagini di repertorio. Io ho preferito che ne parlasse Turturro, che è stato straordinario.

È un attore meraviglioso.

Ed è anche un amico. Mi ha aspettato anni per realizzare quel film.

C’è un’immagine, l’ultima in cui Fidel Castro e Che Guevara sono insieme, prima della partenza per la Bolivia. Mi ha sempre colpito quella fotografia. Sarà la suggestione di sapere come sono andate le cose, ma nello sguardo di Castro c’è una freddezza, come se lui sapesse benissimo che stava mandando Che Guevara, suo fratello, a morire ammazzato.

Io ho parlato anche con la moglie di Fidel, sono stato accolto dai cubani, mi hanno portato in giro per tutto il paese, mi hanno detto che mi avrebbero appoggiato. La verità è che poi mi hanno chiesto di poter approvare il film una volta finito. E io ho detto: no, questo non posso lasciarvelo fare; il film è una cosa mia e mi stupisce che voi me lo chiediate; voi siete dei rivoluzionari e quindi dovreste rispettare la creatività. E così mi sono allontanato da quella storia. Ma chissà, forse, un giorno.

(10 gennaio 2014)

http://temi.repubblica.it/micromega-online/l%E2%80%99italia-in-presa-diretta-intervista-a-francesco-rosi/