𝐋’𝐚𝐫𝐭𝐞 𝐧𝐞𝐠𝐚𝐭𝐚 𝐝𝐚𝐥 𝐜𝐢𝐫𝐜𝐨 𝐞𝐭𝐧𝐨-𝐬𝐞𝐬𝐬𝐮𝐚𝐥𝐞
A sette secoli dalla morte di Marco Polo, Venezia si candida a capitale mondiale della morte dell’arte, dell’occidente e dell’uomo secondo natura.
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L’arte negata dal circo etno-sessuale
di Marcello Veneziani
03 Febbraio 2024
A sette secoli dalla morte di Marco Polo, Venezia si candida a capitale mondiale della morte dell’arte, dell’occidente e dell’uomo secondo natura. Va in scena da aprile alla Biennale dell’Arte l’ennesima mostra nero-trans, a cura di un curatore queer brasiliano. Da anni la Biennale è un disco rotto: gracchia all’infinito il suo messaggio woke, antioccidentale e antiartistico, fondato sul catechismo queer, terzomondista; negritudine, migrazione, inclusione, antirazzismo. Aperta dal murale di un collettivo brasiliano la mostra è dedicata a “emarginati per appartenenza etnica o orientamento sessuale”. Che poi siano artisti o no, è un dettaglio insignificante. L’arte da anni è un dettaglio superfluo, quasi intruso nella Biennale dell’arte. Conta il messaggio, la denuncia, l’intenzione dell’autore.
La direzione uscente della Mostra ha preparato il pacco in vista del nuovo direttore, Pietrangelo Buttafuoco, nominato dal governo Meloni che si insedierà dal prossimo marzo. Un ordigno in forma di biglietto d’accoglienza per far capire chi comanda, in che consiste l’ideologia biennalista, e qual è la linea a cui attenersi. Poi se ti ribelli e vai contro la prescrizione, ti scatenano il linciaggio pubblico e mediatico, ma passando loro per vittime e non per carnefici; se invece acconsenti o fai finta di niente, confermi che nonostante i cambi e i ricambi, la linea resta invariata e tu accetti il ruolo di soprammobile. Sarà difficile, e molto creativo, inventarsi una terza via, andando oltre i diktat minacciosi che i partigiani a mezzo stampa hanno ieri pronunciato sulla mostra. Intanto il direttore uscente avverte che come era in passato così sarà pure in futuro. Se l’arte è creazione, a Venezia invece è di rigore la ripetizione. Bisogna attenersi al Canone. Stigma reazionario.
L’esultanza del solito circo mediatico-intellettuale per l’annuncio della mostra non ha niente a che fare con l’arte, perché nessuno l’ha vista: bastano la premessa etnico-sessuale e il messaggio ideologico lanciato per ricevere plausi e consensi. Il messaggio si condensa nel titolo dato alla Mostra: Stranieri ovunque. A giudicare dai precedenti e dalle premesse ideologiche si potrebbe già dare un sottotitolo a Stranieri ovunque: ma in nessun modo artisti.
Come fai a dirlo se non hai ancora visto la mostra? Perché ho visitato e criticato le precedenti, sulla stessa linea e ho letto quali sono stati i criteri di selezione; e poi, se è lecito esultare a priori per il titolo, il curatore e la linea etnosessuale scelta, dev’essere altrettanto lecito criticarla per gli stessi motivi. Se si scelgono gli artisti solo perché testimoni di una condizione sociale o di un’etnia violentata, allora non si tratta di arte ma di centro sociale di recupero e denuncia.
Esultando per il titolo, ed esaltandone il significato, c’è chi ha sottolineato che straniero ha la stessa radice di strano, e dunque l’esposizione prende due piccioni con una fava: il terzo mondo e il terzo sesso, in una parola il mondo in transito, in senso geografico e biologico fluttuante. Vorrei ricordare che straniero ha la stessa radice di estraneo, cioè di alieno. Aspirare allo statuto di straniero, eternamente mutante tra luoghi, sessi e situazioni, è ritenere un bene quello che da sempre, dal pensiero classico a Marx, è stato considerato un male: l’alienazione. Alieno è il marziano, alienato è il demente, e l’alienazione è un processo di estraneazione, espropriazione e di negazione dell’unico bene che ci appartiene e non deriva dall’avere: l’identità, e quindi la tua origine, la tua radice, quel che tu sei, la tua storia, la tua natura, i tuoi legami, il tuo volto. Già Aristotele osservava che la servitù coincideva con l’alienazione: chi ha legami è libero, perché vive connesso, integrato in un mondo, riconosciuto e amato; chi invece è spostabile, intercambiabile, senza legami, è servo, non è soggetto ma oggetto in transito, come un pacco postale o un attrezzo da usare.
La chiave del titolo è spiegata così dal curatore Adriano Pedrosa: “In profondità siamo tutti stranieri”. La riduzione dell’umanità a uno sciame di sradicati apolidi, stranieri anche in casa loro, non è una prospettiva umana confortante. Ma soprattutto non è lo specchio dell’umanità reale. Faccio presente che allo stato attuale siamo otto miliardi di abitanti sulla terra, e il novanta per cento di questa umanità non ha lasciato il luogo natio, non ha mai avuto lo statuto di straniero, espatriato, rifugiato. I migranti sono milioni, i restanti sono miliardi.
Ma soprattutto cosa c’entra l’arte con lo statuto anagrafico e le sue mutazioni, con l’etnia, l’emigrazione da un paese all’altro o da un sesso all’altro, come si possono scegliere gli artisti su quelle basi e non sulla qualità, il valore, la bellezza e la potenza espressiva della loro arte?
Si, l’arte non ha confini: il solo vero confine è che sia arte, cioè un linguaggio che trasmette attraverso l’intuizione, l’estro, la creatività e la realizzazione dell’opera, un’emozione, un pensiero, una visione. Se tutto può essere commutato e risolto in un messaggio ideologico, in una denuncia, in una rivendicazione o in un comunicato delle brigate rosse o nere del collettivo artisti proletari, non è arte ma vertenza sociale, politica o sindacale. Basta un bollettino, un volantino, non c’è bisogno di un’installazione.
Se si vuole realmente dare un’apertura mondiale all’arte sarebbe bello ad esempio convocare a Venezia, luogo di incontro tra Oriente e Occidente, una grande rassegna sui mille volti del sacro: ovvero come è rappresentato il sacro nelle culture, nelle tradizioni, nelle religioni, nelle storie dei popoli di tutto il mondo. Ma una rassegna del genere non partirebbe dagli alieni o dagli alienati, non si chiamerebbe Stranieri ovunque, semmai il contrario, Nostrani ovunque: in qualunque parte della terra si è figli di una civiltà, di una tradizione, di un linguaggio, di una religione. Un dialogo vero nasce tra identità diverse che si confrontano, non tra identità negate e rifiutate; non c’è dialogo tra “nientità”. La creatività è l’arte di interpretare diversamente la tua identità, la tua matrice, la tua vita, il tuo mondo e la tua storia; o anche quelli altrui. Ma il problema è che l’arte nasce dall’amore per l’essere e non dalla sua negazione. Dal non-essere nasce solo la non-arte. E se fosse questa la vera rivoluzione, la vera trasgressione nell’arte, anziché ripetere a pappagallo il gergo dell’inclusione, dell’antirazzismo e della mutazione etno-sessuale?
La Verità – 2 febbraio 2024