L’apartheid arabo di cui nessuno parla
di Khaled Abu Toameh 26 dicembre 2021
Pezzo in lingua originale inglese: The Arab Apartheid No One Talks About
Traduzioni di Angelita La Spada
“Non tutte le professioni saranno accessibili ai palestinesi con il nuovo decreto…” . – L’Orient Today, 8 dicembre 2021.
I rifugiati palestinesi in Libano “sono socialmente emarginati, hanno diritti civili, sociali, politici ed economici molto limitati, compreso l’accesso limitato ai servizi sanitari, didattici e sociali del governo libanese e devono far fronte a notevoli restrizioni al loro diritto al lavoro e al diritto alla proprietà”. – UNRWA, settembre 2020.
Ci sono diverse ragioni per cui i libanesi non vogliono i palestinesi. Uno dei motivi è che dagli anni Settanta i palestinesi hanno portato guerra e distruzione in Libano e trasformato i campi profughi in basi per gruppi terroristici.
“È tempo di porre fine a questa storia di discriminazione e segregazione sistematica. (…) I palestinesi qualificati dovrebbero poter esercitare le loro professioni, specialmente nei campi in cui sono più necessari. (…) Pochissimi libanesi condividerebbero la mia opinione”. – Sawssan Abou-Zahr, illustre giornalista libanese, Reliefweb, 1 agosto 2021.
Ciò che è chiaro (…) è che la comunità internazionale ignora da tempo gli abusi e le violazioni dei diritti umani perpetrati da un Paese arabo contro i palestinesi.
La demonizzazione di Israele da parte di così tanti giornalisti, funzionari e dei cosiddetti gruppi per i diritti umani lascia poco tempo per chiedersi perché a un palestinese in Libano non sia consentito di esercitare la professione medica mentre una considerevole parte del personale medico negli ospedali israeliani è composta da medici e infermieri arabi
La comunità internazionale ignora da tempo gli abusi e le violazioni dei diritti umani perpetrati da un Paese arabo contro i palestinesi. Ci sono diverse ragioni per cui i libanesi non vogliono i palestinesi. Uno dei motivi è che dagli anni Settanta i palestinesi hanno portato guerra e distruzione in Libano e trasformato i campi profughi in basi per gruppi terroristici. Nella foto: Palestinesi ad Ain el-Hilweh, il più grande campo profughi palestinese del Libano, protestano il 31 gennaio 2020. (Foto di Mahmoud Zayyat/AFP via Getty Images)
La questione dell’apartheid e della discriminazione araba è recentemente riemersa dopo che un ministro libanese ha annunciato che il suo Paese ha deciso di consentire ai palestinesi di lavorare in diversi settori che fino ad ora erano riservati soltanto ai cittadini libanesi.
L’annuncio fatto da Mostafa Bayram, ministro del Lavoro libanese, è stata una sorpresa per molti palestinesi ai quali è stato vietato negli ultimi quattro decenni di svolgere molte professioni.
I palestinesi sperano che la decisione ponga fine a decenni di discriminazione ed emarginazione da parte di un Paese arabo: il Libano.
Alcuni libanesi, tuttavia, hanno espresso una feroce opposizione alla decisione di Bayram di allentare le restrizioni sul lavoro imposte ai palestinesi. Questi libanesi sembrano temere che i palestinesi prendano i loro posti di lavoro o diventino cittadini libanesi a pieno titolo.
L’8 dicembre, Bayram, che è affiliato al gruppo terroristico Hezbollah appoggiato dall’Iran, ha pubblicato un decreto che consente ai palestinesi di esercitare professioni regolamentate dai sindacati.
Il provvedimento stabilisce che i palestinesi nati in territorio libanese e ufficialmente registrati presso il Ministero dell’Interno possono esercitare professioni che richiedono l’appartenenza sindacale da cui erano stati precedentemente esclusi.
Questi lavori regolamentati dai sindacati includono professioni nel campo della medicina, della giurisprudenza e dell’ingegneria, nonché lavori relativi ai trasporti pubblici e al turismo.
Ciò non significa, tuttavia, che il Libano abbia deciso di porre fine completamente alle misure discriminatorie contro i palestinesi.
“Non tutte le professioni saranno accessibili ai palestinesi con il nuovo decreto, poiché alcune richiedono modifiche legali o modifiche allo statuto dei sindacati affinché i lavoratori non libanesi possano scendere in campo”, secondo quanto riportato da L’Orient Today, che si definisce una piattaforma indipendente finalizzata a esaminare i fallimenti del sistema libanese.
“La storia delle interazioni dei rifugiati palestinesi con le politiche restrittive in Libano risale al periodo precedente la guerra civile libanese”, secondo uno studio sull’occupazione palestinese in Libano.
Lo studio ha rilevato che il Ministero del Lavoro e degli Affari Sociali propose nel 1964 di regolamentare la partecipazione degli stranieri al mercato del lavoro libanese. Di conseguenza, i palestinesi furono classificati come stranieri e fu richiesto loro di ottenere un permesso di lavoro.
Nel 1982, le autorità libanesi restrinsero ulteriormente l’elenco delle professioni accessibili ai palestinesi e questi ultimi vennero esclusi dal lavoro in 70 professioni commerciali e amministrative.
Lo studio ha inoltre rilevato che le restrizioni furono leggermente revocate nel 1995, con l’introduzione di un nuovo emendamento al decreto ministeriale che esentò da queste restrizioni gli stranieri nati in Libano, nati da madri libanesi o sposati con donne libanesi.
Secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei profughi palestinesi (UNRWA):
“[I rifugiati palestinesi in Libano] sono socialmente emarginati, hanno diritti civili, sociali, politici ed economici molto limitati, compreso l’accesso limitato ai servizi sanitari, didattici e sociali del governo libanese e devono far fronte a notevoli restrizioni al loro diritto al lavoro e al diritto alla proprietà”.
L’UNRWA ha inoltre osservato che ai rifugiati palestinesi è ancora vietato esercitare 39 professioni, principalmente a causa di una condizione preliminare che impone loro di possedere la nazionalità libanese e ottenere un permesso di lavoro. Le professioni comprendono i settori della sanità, del diritto, dei trasporti, dell’ingegneria e del turismo.
L’ultimo decreto del ministro del Lavoro libanese è stato accolto con reazioni contrastanti.
Mentre alcuni palestinesi e libanesi lo hanno visto come un positivo passo avanti verso la fine della discriminazione e dell’apartheid, altri hanno affermato che è insufficiente e non prevede meccanismi chiari per l’applicazione. Secondo Ahmad Tamimi, un alto funzionario dell’OLP:
“Il decreto rappresenta un importante punto di svolta nella vita dei rifugiati palestinesi in Libano, poiché costituisce la fine delle loro difficoltà e un importante sviluppo nel cambiamento delle loro condizioni umane per una vita dignitosa e normale”.
Tamimi ha inoltre affermato che la decisione libanese “ha avuto un impatto positivo sui cuori dei palestinesi in generale e dei rifugiati in Libano in particolare”.
I detrattori, tuttavia, sono meno entusiasti delle prospettive di porre fine al sistema di apartheid e discriminazione in Libano.
“Come tutti gli altri, sono critico e diffidente nei confronti di questa decisione”, ha scritto un utente di social media chiamato Islam-#GoldStrike.
“Uno dei suoi primissimi e maggiori difetti è che si tratta di una decisione presa dal ministro stesso, pertanto, è legata al fatto che egli ricopre questa posizione, il che significa che può essere facilmente revocata dal prossimo ministro”.
Alcuni libanesi sembrano particolarmente preoccupati che i palestinesi prendano il posto dei cittadini libanesi in un Paese dove il tasso di disoccupazione supera il 40 per cento.
Questi libanesi sembrano temere che la decisione possa aprire la strada all’insediamento permanente dei palestinesi in Libano. Ci sono diverse ragioni per cui i libanesi non vogliono i palestinesi.
Uno dei motivi è che dagli anni Settanta i palestinesi hanno portato guerra e distruzione in Libano e trasformato i campi profughi in basi per gruppi terroristici.
I libanesi temono che la costante presenza dei palestinesi in Libano abbia implicazioni economiche e demografiche sul Paese. Sostengono che il Libano sta affrontando una grave crisi economica e non può permettersi di assorbire cittadini non libanesi, compresi i palestinesi, che già vivono in condizioni difficili in diversi campi profughi.
I libanesi hanno anche timore del tawteen (“reinsediamento”). Alcuni sospettano che ci siano arabi e altri partiti internazionali, che vorrebbero che il Libano diventasse la patria dei palestinesi. Ecco perché questi libanesi considerano i palestinesi degli “stranieri”.
In breve, i libanesi dicono che i palestinesi non sono i benvenuti a stare in Libano.
I vertici dei sindacati dei medici e dei farmacisti libanesi, contrari all’allentamento delle restrizioni imposte ai palestinesi, hanno espresso il loro sgomento per la decisione del ministro.
Hanno precisato che le norme dei loro sindacati stabiliscono che nessun medico ha il diritto di esercitare la professione medica sul territorio libanese fino a quando non viene accettato come membro dei sindacati.
Il Kataeb, il partito politico cristiano del Libano, ha avvertito che la decisione di consentire ai palestinesi di lavorare in diversi settori avrebbe gravi ripercussioni sulla situazione politica ed economica in Libano:
“Aprire la porta ai rifugiati in Libano per esercitare decine di professioni è un attacco ai diritti dei libanesi, e un consolidamento della loro presenza permanente in Libano mentre i libanesi stanno emigrando… Questo provvedimento contribuirà a ridurre i salari nelle menzionate professioni in linea con il mercato della domanda e dell’offerta. Richiederà inoltre alle istituzioni e ai datori di lavoro di registrare i dipendenti [palestinesi] per la previdenza sociale, il che accumulerà oneri insopportabili che porteranno al fallimento”.
Il Partito libanese ha inoltre avvisato che la decisione ha “intenzioni nascoste e malevoli”, come quella di insediare permanentemente i palestinesi in Libano.
Nonostante queste chiare opinioni anti-palestinesi da parte degli arabi, ci sono comunque alcuni libanesi che non hanno paura di esprimere la loro vergogna per il maltrattamento e le misure discriminatorie attuate dal Libano nei confronti dei palestinesi.
“È tempo di porre fine a questa storia di discriminazione e segregazione sistematica”, ha scritto l’illustre giornalista libanese Sawssan Abou-Zahr.
“I palestinesi qualificati dovrebbero essere autorizzati a esercitare le loro professioni, specialmente nei campi in cui sono più necessari. Oserei dire che è ora di concedere ai palestinesi una sorta di rappresentanza almeno nei comuni. Pochissimi libanesi condividerebbero la mia opinione. Alcuni potrebbero accusarmi di tradimento; un gran numero rifiuterebbe di prendere in considerazione questo suggerimento, per razzismo o per paura che migliorare le condizioni di vita dei rifugiati equivalga a farli stabilire definitivamente nel Paese”.
Non è chiaro in questa fase se la decisione del ministro affiliato a Hezbollah metterà davvero fine alle politiche e alle leggi dellìapartheid di vecchia data del Libano contro i palestinesi. Ciò che è chiaro, tuttavia, è che la comunità internazionale ignora da tempo gli abusi e le violazioni dei diritti umani perpetrati da un Paese arabo contro i palestinesi.
I giornalisti che si occupano di Medio Oriente generalmente ignorano la difficile situazione dei palestinesi nei Paesi arabi, compreso il Libano. Per loro, le azioni e le politiche del Libano contro i palestinesi non fanno notizia.
La demonizzazione di Israele da parte di così tanti giornalisti, funzionari e dei cosiddetti gruppi per i diritti umani lascia poco tempo per chiedersi perché a un palestinese in Libano non sia consentito di esercitare la professione medica mentre una considerevole parte del personale medico negli ospedali israeliani è composta da medici e infermieri arabi.
Immaginate il clamore che sarebbe scoppiato nelle istituzioni delle Nazioni Unite o nei campus universitari negli Stati Uniti o in Canada se tali misure fossero state prese da Israele. Ma quando un Paese arabo sottopone i palestinesi a una discriminazione radicata e viola i loro diritti umani fondamentali, l’unico suono che si sente è un silenzio mortale.
Khaled Abu Toameh è un pluripremiato giornalista che vive a Gerusalemme. È Shillman Journalism Fellow al Gatestone Institute.