𝐋𝐚 𝐬𝐭𝐨𝐫𝐢𝐚 𝐞̀ 𝐟𝐢𝐧𝐢𝐭𝐚, 𝐦𝐚 𝐥’𝐚𝐩𝐨𝐜𝐚𝐥𝐢𝐬𝐬𝐞 𝐞̀ 𝐬𝐯𝐚𝐧𝐢𝐭𝐚
È finito il tempo della storia ma non è più tempo nemmeno per la profezia, che di solito accompagna i collassi storici e apre le porte alle visioni apocalittiche. Viviamo senza saperlo nella Dopostoria.
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La storia è finita, ma l’apocalisse è svanita
È finito il tempo della storia ma non è più tempo nemmeno per la profezia, che di solito accompagna i collassi storici e apre le porte alle visioni apocalittiche. Viviamo senza saperlo nella Dopostoria. Cessata la storia, e con lei la memoria storica, la passione per la storia, la rilevanza storica degli eventi, sostituita con la rilevanza globale, viviamo in quell’indefinibile spazio postumo.
La Dopostoria è una definizione che trovai tanti anni fa in una poesia di PierPaolo Pasolini. Fu come una folgorazione leggere i versi di Un solo rudere, recitati da Orson Welles ne La Ricotta e raccolti in Poesie in forma di rosa. Ne parlai in un mio libro del millennio scorso e l’ho spesso citata negli anni, ritenendola il manifesto dolente per la tradizione che si spegne. “Io sono una forza del Passato. Solo nella tradizione è il mio amore. Vengo dai ruderi, dalle Chiese, dalle pale d’altare, dai borghi dimenticati…dove sono vissuti i fratelli”. Anch’io come lui mi aggiravo “per la Tuscolana come un pazzo, per l’Appia come un cane senza padrone” e mi sentivo superstite, “feto adulto” “nato dalle viscere di una donna morta”, “sull’orlo estremo di qualche età sepolta”. Guardavo anch’io i crepuscoli romani “come i primi atti della Dopostoria”. Eccola, la Dopostoria. A lei ha dedicato ora il titolo pasoliniano di un libro uno storico di professione, Roberto Pertici (Dall’Ottocento alla Dopostoria, ed. Studium) che si addentra su alcuni temi e personaggi degli ultimi due secoli. Compito dello storico, dice, è quello di “cercare i fratelli che non ci sono più”, come poetava Pasolini; e questo colloca lo storico fra le forze del Passato, al sopraggiungere della Dopostoria.
Ma cos’è poi la Dopostoria? Non è la fine degli accadimenti, delle tragedie collettive, dei grandi rivolgimenti epocali, che continuano ancora. Non è la fine della storia in senso hegeliano o marxiano. È la percezione di essere entrati in uno stadio che non conosce più legami vivi col passato e dunque col futuro. Un tempo sospeso e permanente, che non entra in alcuna sequenza, non ha eredità da trasmettere, procede per forza d’inerzia. Non distingue tra cronaca e storia, tra realtà e rappresentazione virtuale, tra il vero e la pubblicità. Viviamo la storia in Dad, da remoto, per dirla in gergo scolastico pandemico. La Dopostoria è l’avvento dell’infinito presente globale.
Quest’anno è il centenario della nascita di Pasolini, ma l’occasione è superflua per ricordarlo giacché Pasolini non se n’è mai andato, è continuamente citato, chiamato in causa. Quel che invece è scomparso di Pasolini è il suo sguardo apocalittico; non ha lasciato eredi né continuatori quel pensiero profetico con le sue denunce accorate.
Dopo Pasolini vi furono però altri scrittori apocalittici ma inoltrati in territori preclusi a Pasolini, più vicini allo spirito religioso. Solo per limitarci al nostro paese ne cito almeno altri tre, scomparsi molti anni dopo Pasolini. Autori che furono definiti dai critici cattolici come “la banda degli gnostici” di casa Adelphi. Apocalittico fu Guido Ceronetti, anche se la sua apocalissi non aveva un preminente connotato storico-civile come quella di Pasolini, ma biblico-letterario. Antimoderno come Pasolini, la sua visione apocalittica a volte si faceva grottesca e perfino divertente, un po’ come la prosa di Cioran. Mentre Pasolini descriveva le rovine dell’Italia, Ceronetti dedicava un libro a Italoshima, la penisola distrutta come dopo una bomba atomica, al pari di Hiroshima.
Apocalittico, ma in una versione più legata al cristianesimo e alla tragedia del suo ritrarsi dal mondo, fu Sergio Quinzio, teologo e biblista, che dedicò il suo sguardo alla religione della Croce nel tempo della morte di Dio, nella storia e nella vita contemporanea. Nella sua visione profetica Quinzio raccontò la debolezza di Dio, il suo silenzio e la sua sconfitta nel mondo, prefigurò la scomparsa della Chiesa. Commentando l’Apocalisse, Quinzio ritenne disperata la salvezza per gli uomini.
Apocalittico fu pure Elémire Zolla, scrittore e studioso di religioni, tradizioni iniziatiche e mistici; egli fu l’apocalittico per antonomasia, perché citato nel famoso saggio di Umberto Eco, Apocalittici e integrati, insieme a Theodor Adorno e alla Scuola di Francoforte. Zolla fu capofila degli apocalittici nostrani davanti alla società profana di massa. Tradizionalista, tenne tuttavia a distinguersi dagli autori tradizionalisti, come René Guénon e soprattutto Julius Evola, oltre che dai tradizionalisti cattolici.
Pasolini, Ceronetti, Quinzio e Zolla furono i quattro Cavalieri nostrani dell’apocalisse. Scomparsi loro, si è persa traccia del pensiero poststorico, profetico e apocalittico. È rimasto forse Massimo Cacciari, e in parte Giorgio Agamben, con la loro lettura del Katechon, di Dio, del Sacro, della Cristianità. Affrontano entrambi, fuori dalla fede, il doppio tema della Chiesa di Cristo, del potere temporale che seduce e del potere che frena, ritarda o trattiene la rovina, ossia il Katechon. Si pongono davanti alla fine dei tempi, al mysterium iniquitatis e all’avvento dell’Anticristo che verrà a sedurre chi è morto nell’Anima. Ma senza rivelazioni salvifiche. In Cacciari la parola chiave del suo pensiero tragico più che Apocalisse è Catastrofe. E comunque Cacciari e Agamben più che apocalittici vengono oggi ridotti a critici del regime sanitario.
Il pensiero apocalittico non sembra avere eredi. Nel versante pasoliniano e in quello neognostico e cristiano. Non è solo scomparsa la storia ma anche l’elaborazione spirituale del suo lutto, la visione profetica di trovarsi al cospetto della fine dei tempi, l’escatologia e la rivelazione. Alla fine della storia è stato tolto pure il Gran Finale. La storia finisce e la gente si fa i selfie.
MV, La Verità (16 gennaio 2022)