La ruspa di Firenze
È tutta questione di… intelligenza.
La ruspa può meno di un antipulci. Occorre ben altro.
Abbiamo tutti appreso che, nella sua battaglia contro le occupazioni abusive, il Sindaco di Firenze, un certo Nardella, ha deciso di smantellare un ecovillaggio rom in area privata all’interno della città. Lo strumento meccanico scelto per l’operazione è quello classico della ruspa.
Ecco, mi piace informare il “ruspante” (ovviamente inteso nel senso di “colui che usa la ruspa”) Sindaco di Firenze che se c’è un mezzo sbagliatissimo per effettuare lo sgombero di un’area abusiva, quello è proprio la ruspa e ciò, naturalmente, a prescindere dall’etnia e dal colore degli abusivi. La ragione di ciò è molto semplice. Nell’immaginario collettivo, il continuo riferimento mediatico all’uso della ruspa ha sostituito (per ovvii motivi evoluzionistici) il detto popolare “dove passa Attila non cresce più l’erba”.
È noto che la ruspa è una macchina per escavazione di grandi dimensioni, capace di raccogliere imponenti quantità di materiale pesante, con il conseguente spianamento della terra rimossa. I cingolati su cui si muove comunicano il senso di una potenza di rasatura del suolo quasi irreale, e la sua enorme bocca dentata di contenimento parla alle nostre viscere, rassicurandoci che il suo intervento ci pone definitivamente al riparo dal tentativo di ricostruire quanto la bocca ha saputo distruggere, raccogliere ed eliminare. Invocare l’uso di questa macchina nella lotta alle occupazioni abusive rassicura la gente. Utilizzarla, galvanizza le nostre interiora fino a far credere al nostro cervello di aver raggiunto il porto sicuro.
I politici alla Nardella lo sanno e ce la raccontano, e sono in molti di loro che utilizzano questo linguaggio. E dopo avercela raccontata, la fanno perché poter raccontare il fatto corrobora il consenso. Illusione ed Alibi, perché la verità è che la ruspa è meno efficace di un antizanzare. La ruspa non fa altro che abbattere le abitazioni abusive. Le divelle dal terreno e poi spiana ciò che rimane. Tutto qua.
Ma, a meno di voler coltivare l’insana (anzi, repellente) bramosia dei cingolati che passano fisicamente sui corpi dei rom, la ruspa non elimina affatto il problema dei campi abusivi. E non lo elimina semplicemente, perché il suo unico effetto è di spostare il rom direttamente sulla strada. Eh sì, cari miei! Toglie un tetto sulla testa del rom e fa sì che quest’ultimo cerchi riparo altrove, come è giusto, normale e ovvio che sia. L’essere umano tende a sopravvivere, a trovare qualsiasi soluzione possibile, anche la peggiore, per non soccombere. E quello che vogliamo è tutto qui? Quello che pretendiamo dal nostro Stato è soltanto la visione di un mondo libero dagli abusivi, solo perché radiamo al suolo i loro rifugi di più o meno fortuna? Quanta miopia.
La soluzione è ben diversa e ce lo dimostra l’azione del Comune di Brescia dove sono stati creati due campi comunali, in cui i rom possono andare a vivere previa stipula di un contratto che li obbliga a rendere le proprie generalità. I campi sono costantemente monitorati dall’Ufficio comunale per l’immigrazione, dalla Polizia locale, dalla Polizia Giudiziaria e dalle operatrici delle cooperative locali che si occupano di accompagnare a scuola i figli dei rom.
Cosa ci racconta questo tipo di operazione politico-amministrativa? Ci racconta che quando lo Stato fa veramente lo Stato, e cioè crea sinergia tra i propri enti ed organi, punta sulla scolarizzazione come strumento evolutivo ed integrativo. Ecco, questo tipo di Stato realizza la legalità. Dove, beninteso, per legalità si intende che qualunque straniero che si collochi sul nostro suolo italiano deve rispettare la nostra forma di Stato, le nostre istituzioni, la nostra cultura. Così come, recandoci nei paesi arabi e volendo entrare in una moschea, ad esempio, noi occidentali italiani siamo tenuti (nel senso di dovere morale ed intellettuale) a toglierci le scarpe, così, qualunque essere umano non italiano deve rispettare, sul territorio italiano, la nostra identità italiana e tutto ciò che essa comporta.
Parcheggiamo le ruspe nel capannone e rimettiamo nelle nostre mutande la mediatica protrusione delle viscere. Cerchiamo di utilizzare di più la mente (certo, deve esserci anche quella… altrimenti si utilizzano le ruspe), e le nostre leggi verranno rispettate, perché l’ethos sociale si stimola e si favorisce anche con la ripetizione di buone pratiche. E sono queste che si possono trasformare in buone abitudini.
Meditiamo gente… meditiamo.
Alessandro Bertirotti si è diplomato in pianoforte presso il Conservatorio Statale di Musica di Pescara e laureato in Pedagogia presso l’Università degli Studi di Firenze. È stato docente di Psicologia per il Design all’Università degli Studi di Genova, Scuola Politecnica, Dipartimento di Scienze per l’Architettura ed è attualmente Visiting Professor di Anthropology of Mind presso l’Universidad Externado de Colombia, a Bogotà; vice-segretario generale della CCLPW , per la Campagna Internazione per la Nuova Carta Mondiale dell’educazione (UNEDUCH), ONG presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite e il Parlamento Europeo, e presidente dell’International Philomates Association. È membro della Honorable Academia Mundial de Educación di Buenos Aires e membro del Comitato Scientifico di Idea Fondazione (IF) di Torino, che si occupa di Neuroscienze, arte e cognizione per lo sviluppo della persona. Ha fondato l’Antropologia della mente (www.bertirotti.info).
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