La rivelazione del Covid-19
È tutta questione di… equilibrio.
Ho già avuto occasione di affermare, anche qui, in risposta a qualche frequentatore del blog, che il termine apocalisse ha un preciso significato teologico, ossia rivelazione. Dunque, mentre spesso crediamo che ci si riferisca, con questo termine, alla fine del mondo, diventa assai più interessante riflettere sul ruolo di una rivelazione, specialmente in questo frangente della storia umana.
La questione fondamentale, dal mio punto di vista, è come vogliamo considerare questa rivelazione. La vogliamo valutare temporalmente rivolta al futuro, oppure al passato? Eh, sì… perché in base alla direzione cronologica della nostra riflessione, le considerazioni sono diverse.
Parto subito dalla constatazione che l’unica cosa che l’essere umano, in questa forma esistenziale, non potrà mai cambiare è il passato, mentre il cambiamento, tanto in peggio che in meglio, è possibile solo se guardiamo al futuro. E la nostra mente è geneticamente, dunque antropologicamente, proiettata verso il futuro. Leggiamo perché pensiamo di cambiare la nostra visione del mondo, attuale e futura, grazie ai contenuti che possiamo apprendere. Ci muoviamo, lavoriamo, amiamo e soffriamo, frequentiamo gli amici e con loro discutiamo, perché pensiamo di avere di fronte a noi un futuro. Un futuro che possiamo solo augurarci migliore, altrimenti non avrebbe alcun senso tutto questo. Non viviamo per tornare ad un passato nel quale ripeteremmo esattamente ciò che è già accaduto, perché vi ritorneremmo come eravamo e non come siamo diventati, ossia come siamo oggi.
Ecco perché l’unica vera, utile e produttiva apocalisse non può che manifestare un tempo migliore per tutti, oscurando tutto il peggio che è stato quanto il buono. Certo, non sarà facile, perché in queste manifestazioni catastrofiche evolutive molti individui rivelano, appunto, la parte più nascosta della propria identità, quella che riescono ad occultare con l’ipocrisia da sepolcro imbiancato che segna la nostra storia.
Decideranno loro stessi cosa fare del marcio che li caratterizza, e le persone di buona volontà faranno altrettanto, rispetto a quello che sanno di dover fare per migliorarsi. Quello che mi sento di consigliare, in questo momento, è di sospendere il giudizio. Non ascoltate i politici che infieriscono contro altri colleghi, con i quali, peraltro, hanno governato fino a ieri, oppure che ne appoggiano altri, in nome della vecchia ipocrisia. Sappiate attendere, e quando la buriana sarà passata le cose saranno talmente palesi, chiare ed evidenti che non avranno più parole da dire, e noi le orecchie per ascoltarli e per accreditarli come esseri umani.
Questa è la migliore apocalisse possibile.
Alessandro Bertirotti si è diplomato in pianoforte presso il Conservatorio Statale di Musica di Pescara e laureato in Pedagogia presso l’Università degli Studi di Firenze. È docente di Psicologia per il Design all’Università degli Studi di Genova, Scuola Politecnica, Dipartimento di Scienze per l’Architettura ed è attualmente Visiting Professor di Anthropology of Mind presso l’Universidad Externado de Colombia, a Bogotà e presidente dell’International Philomates Association. È membro della Honorable Academia Mundial de Educación di Buenos Aires e membro del Comitato Scientifico di Idea Fondazione (IF) di Torino, che si occupa di Neuroscienze, arte e cognizione per lo sviluppo della persona. Ha fondato l’Antropologia della mente (www.bertirotti.info).