La reale risposta palestinese al discorso di Trump su Gerusalemme
di Bassam Tawi 13 dicembre 2017
Pezzo in lingua originale inglese: The Real Palestinian Response to Trump’s Jerusalem Speech
Traduzioni di Angelita La Spada
Spacciando il rogo “cerimoniale” delle foto per il riflesso della diffusa rabbia palestinese per la politica di Trump su Gerusalemme, i media internazionali sono ancora una volta complici nel promuovere la propaganda dei manipolatori di opinioni palestinesi. Ai giornalisti, compresi i fotografi e le troupe televisive, sono stati consegnati dei piani dettagliati degli eventi che avranno luogo in diverse parti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.
Quando ci sediamo nei nostri salotti a guardare in tv le notizie che arrivano dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza, ci chiediamo: quanti di questi “eventi” sono di fatto delle farse mediatiche? Perché i giornalisti si lasciano ingannare dalla macchina della propaganda palestinese che diffonde odio e violenza dal mattino alla sera?
È giunto il momento di qualche autoriflessione da parte dei media: desiderano davvero continuare a fungere da portavoce di quegli arabi e musulmani che intimidiscono e terrorizzano l’Occidente?
I “fiumi di sangue” promessi già scorrono mentre ne parliamo. Sono però i coltelli che arabi e musulmani si puntano vicendevolmente alla gola a costituire la fonte di questo flusso cremisi e non una dichiarazione di un presidente americano. Forse questo potrebbe finalmente essere un evento che merita l’attenzione dei giornalisti itineranti nella regione?
Appena tre ore dopo che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump aveva telefonato al presidente dell’Autorità palestinese (Ap) Mahmoud Abbas per informarlo della sua intenzione di trasferire l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, diversi fotoreporter palestinesi hanno ricevuto una telefonata da Betlemme.
Gli autori delle telefonate erano degli “attivisti” palestinesi che hanno invitato i fotografi a recarsi in città per documentare un “evento importante”. Al loro arrivo i fotografi hanno scoperto che “l’evento importante” era costituito da un gruppetto di “attivisti” palestinesi che volevano bruciare le foto di Trump davanti alle telecamere.
Gli “attivisti” hanno atteso pazientemente che i fotoreporter e i cameraman preparassero le loro attrezzature per filmare “l’evento importante”. Poco dopo, i media erano in fermento per le notizie di “dimostranti palestinesi inferociti scesi in strada per protestare” contro l’intenzione di Trump di trasferire l’ambasciata a Gerusalemme e contro la sua decisione di riconoscere la città come capitale di Israele. Il gruppetto di palestinesi ripreso a bruciare le foto di Trump sembrava far parte di una protesta di massa scoppiata nelle comunità palestinesi.
Questo episodio rappresenta un altro esempio della collusione tra i palestinesi e i media, i cui rappresentanti sono sempre più che felici di fungere da portavoce per la macchina della propaganda palestinese e di offrire una piattaforma aperta per diffondere le minacce palestinesi contro Israele e gli Stati Uniti.
Se i fotografi e i cameraman non fossero stati presenti all’episodio “spontaneo” delle foto bruciate, gli attivisti palestinesi sarebbero stati costretti a tornarsene tranquillamente in uno dei bei caffè di Betlemme.
Ma non c’è di che preoccuparsi: gli attivisti palestinesi sono ben consapevoli del fatto che i reporter locali e stranieri sono affamati di sensazionalismo e cosa c’è di meglio che vedere le foto di Trump che bruciano nel luogo di nascita di Gesù la vigilia di Natale, mentre migliaia di pellegrini cristiani e di turisti stanno per arrivare in città?
Spacciando il rogo “cerimoniale” delle foto per il riflesso della diffusa rabbia palestinese per la politica di Trump su Gerusalemme, i media internazionali sono ancora una volta complici nel promuovere la propaganda dei manipolatori di opinioni palestinesi. I leader e i portavoce palestinesi cercano di dare l’impressione che la politica di Trump riguardo a Gerusalemme incendierà la regione. Cercano inoltre di inviare agli americani il messaggio che le politiche del loro presidente mettono in pericolo la loro vita. In effetti, i media si sono offerti di servire la campagna di intimidazione palestinese. E la copertura mediatica della farsa di Betlemme è solo l’inizio.
Ora che i palestinesi sono riusciti, con l’aiuto dei media, a imprimere quelle immagini incendiarie nelle menti di milioni di americani, intendono organizzare nuove proteste. L’obiettivo è terrorizzare l’opinione pubblica americana e costringere Trump ad annullare la sua decisione in merito allo status di Gerusalemme. Questa tattica di intimidazione attraverso i media non è nuova. Di fatto, è qualcosa che accade da decenni, in gran parte grazie all’adesione dei media mainstream in Occidente.
Ora i giornalisti palestinesi e occidentali sono stati invitati a coprire una serie di proteste pianificate dai palestinesi nei prossimi giorni e nelle prossime settimane, a seguito delle decisioni di Trump. Ai giornalisti, compresi i fotografi e le troupe televisive, sono stati consegnati dei piani dettagliati degli eventi che avranno luogo in diverse parti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. È stato loro promesso che ci saranno più scene di foto di Trump e di bandiere americane bruciate. Alcuni giornalisti hanno perfino ricevuto indicazioni sui luoghi in cui dovrebbero esserci “scontri” tra i rivoltosi palestinesi e i soldati dell’Idf, le Forze di difesa israeliane. In altre parole, ai giornalisti è stato detto dove esattamente debbano essere per documentare i palestinesi che scagliano pietre contro i soldati – e la prevedibile risposta dell’Idf.
Ed ecco la parte divertente. Se per qualsiasi motivo le telecamere non si presentano, anche gli “attivisti” probabilmente non saranno presenti. Nel mondo palestinese, tutto ruota attorno alla manipolazione dei media e al fatto di reclutarli a favore della causa palestinese. E la causa è sempre quella di colpire Israele – e poi Trump.
Sì, i palestinesi protesteranno nei prossimi giorni contro Trump. Sì, scenderanno in strada e lanceranno sassi contro i soldati dell’Idf. Sì, bruceranno le foto di Trump e le bandiere americane. E sì, cercheranno di compiere attacchi terroristici contro gli israeliani.
Ma quando ci sediamo nei nostri salotti a guardare in tv le notizie che arrivano dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza, ci chiediamo: quanti di questi “eventi” sono di fatto delle farse mediatiche? Perché i giornalisti si lasciano ingannare dalla macchina della propaganda palestinese che diffonde odio e violenza dal mattino alla sera? E perché i giornalisti esagerano e aggravano le minacce palestinesi di violenza e anarchia?
Innanzitutto, molti giornalisti desiderano appagare i loro lettori ed editori offrendogli storie che diano un’immagine negativa di Israele. In secondo luogo, alcuni giornalisti credono che scrivere articoli contro Israele li aiuti a vincere premi da parte di organizzazioni virtuose. In terzo luogo, molti giornalisti ritengono che scrivere articoli contro Israele dia loro accesso ai cosiddetti “liberal” e a una sedicente élite “illuminata” che idealizzano di essere dalla parte giusta della storia. Questi reporter non vogliono rendersi conto che 21 paesi musulmani cercano da molti decenni di distruggere uno Stato ebraico e piuttosto sembrano pensare che se sono “liberal” e “di mentalità aperta” devono sostenere i “più deboli”, ossia “i palestinesi”. In quarto luogo, molti giornalisti pensano che si tratti di un conflitto tra buoni (presumibilmente i palestinesi) e cattivi (in teoria gli israeliani), e che sia loro dovere stare dalla parte dei “buoni” anche se questi compiono atti di violenza e terrorismo.
Di recente, più di 300 fedeli musulmani sono stati massacrati da terroristi musulmani mentre pregavano in una moschea del Sinai, in Egitto. Questa tragedia è stata probabilmente coperta da un minor numero di giornalisti rispetto all’episodio orchestrato delle foto di Trump bruciate a Betlemme. Ma allora c’è stata indignazione da parte del mondo arabo e musulmano? Adesso, arabi e musulmani parlano di “giorni di rabbia” contro Trump. E allora perché non è stato indetto alcun “giorno della rabbia” nei paesi arabi e islamici quando più di trecento fedeli, tra cui molti bambini, sono stati massacrati durante le preghiere del venerdì.
È giunto il momento di qualche autoriflessione da parte dei media: desiderano davvero continuare a fungere da portavoce di quegli arabi e musulmani che intimidiscono e terrorizzano l’Occidente?
I giornalisti collaborano attivamente con l’Autorità palestinese e Hamas per creare la falsa impressione che esploderà la terza guerra mondiale se l’ambasciata americana sarà trasferita a Gerusalemme. Centinaia di migliaia di musulmani e cristiani sono stati massacrati dall’inizio della “primavera araba”, più di sei anni fa. Sono stati uccisi da terroristi musulmani e da altri arabi. La carneficina continua tuttora in Yemen, Libia, Siria, Iraq e in Egitto.
Pertanto, non c’è alcun dubbio: i “fiumi di sangue” promessi già scorrono mentre ne parliamo. Sono però i coltelli che arabi e musulmani si puntano vicendevolmente alla gola a costituire la fonte di questo flusso cremisi e non una dichiarazione di un presidente americano. Forse questo potrebbe finalmente essere un evento che merita l’attenzione dei reporter itineranti nella regione?
Bassam Tawil è un musulmano che vive e lavora in Medio Oriente.