𝐋𝐚 𝐟𝐚𝐯𝐨𝐥𝐚 𝐝𝐞𝐥𝐥’𝐮𝐜𝐜𝐞𝐥𝐥𝐢𝐧𝐨 𝐯𝐢𝐨𝐥𝐚
Voi non avete conosciuto Uccellino. Era un piccolo dio volatile, venuto dalla Svezia, che assumeva delicate sembianze umane. Si chiamava Kurt Hamrin, soprannome Uccellino, ed era la mitica ala destra della Fiorentina tra la fine degli anni cinquanta e la fine dei sessanta.
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La favola dell’uccellino viola
di Marcello Veneziani
18 Febbraio 2024
Voi non avete conosciuto Uccellino. Era un piccolo dio volatile, venuto dalla Svezia, che assumeva delicate sembianze umane. Si chiamava Kurt Hamrin, soprannome Uccellino, ed era la mitica ala destra della Fiorentina tra la fine degli anni cinquanta e la fine dei sessanta. Leggero come una piuma, con un tocco di palla lieve ma ficcante; le spalle in giù, a sagoma di abete, i calzettoni abbassati in segno di estro, un ciuffetto gentile di capelli lisci a sfumatura alta; sottile nei lineamenti, nei palleggi, nelle incursioni. Segnò oltre 150 gol in una decina di campionati in maglia viola. E’ morto giorni fa, sulla soglia dei novant’anni, e pochissimi ne hanno parlato; a breve distanza da Gigi Riva che ha meritato l’affettuoso e ammirato ricordo di tanti e della tv. Hamrin era l’epica della mia infanzia; nel suo nome è riassunta l’età favolosa del calcio. Quando giocavo al pallone – come Hamrin giocavo da ala destra, seppure da mancino – indossavo la maglia viola ma mi chiamavano per ragioni di carnagione Amarildo, il calciatore viola brasiliano. Era il tempo in cui essere di colore era una marcia in più nel calcio, tra Pelé, Didi e Garrincha del Brasile, o il portoghese Eusebio del Benfica. Tra i viola c’era stato Julinho, e c’erano in giro Jair, Nené, Cinesinho.
Giocavo otto ore al giorno, festivi inclusi, su campi disastrati o in mezzo alle strade, avevo un bel sinistro. Numerose le ferite e l’acido lattico, ma per me erano decorazioni sul campo. Il mio primo articolo a undici anni fu una lettera al Corriere dello sport diretto da Antonio Ghirelli contro Rivera e la Nazionale di Fabbri ai tempi della Corea, la Caporetto del calcio italiano. A otto anni avevo già dedicato una poesia in rima a Miguel Montuori, mezz’ala fiorentina che aveva precocemente smesso di giocare per uno scontro in campo con Maldini senior. Scoprii Indro Montanelli per un articolo che celebrava il secondo scudetto della Fiorentina, titolato La signora in abito viola, apparso sulla Domenica del Corriere nel ’69. Andavo coi miei in commosso pellegrinaggio per vedere i viola quando scendevano a giocare al centro-sud; la prima volta fu all’Olimpico nel giorno del mio onomastico. Scoprii la gioia interiore quando allo Stadio delle Vittorie di Bari segnò la Fiorentina e io non potevo esultare perché i miei conterranei, che avevano allora il culto del centravanti barese Mujesan, mi avrebbero mangiato vivo, con l’aggravante di alto tradimento etnico. Così al Pino Zaccheria di Foggia ai tempi dell’allenatore Pugliese e del centravanti Nocera. Poi mi crebbero gli occhiali, si atrofizzò il sinistro, lasciai il pallone e passai ai libri e alla filosofia. Diventai col tempo giornalista e scrittore, ma restai in realtà un calciatore fallito, costretto a ripiegare dagli stadi e dal pallone sui fantasmi di carta e le sue pensose malinconie.
Il tifo è stata una malattia della prima infanzia, poi ha percorso tutta la scuola dell’obbligo, lasciandomi solo da adolescente. Per una perversione congenita, io pugliese, ero tifoso sfegatato della Fiorentina. Amavo la sua eleganza, il suo giglio, Hamrin, e poi tutti gli altri da Albertosi a Chiarugi; e la città intera, e l’inflessione fiorentina… Amavo il suo unico scudetto, che coincideva con la mia nascita. La squadra viola non faceva parte degli squadroni vincenti e popolari, come la Juve, l’Inter o il Milan. Fu allora che elaborai la nobiltà della sconfitta e presi a parteggiare con passione romantica per i Vinti. Sapevo tutto della Fiorentina e del calcio. La mia bibbia erano gli album Panini, dove esercitavo il feticismo e l’accademia; ma anche il calcio-mercato con lo scambio delle figurine. In quel tempo odiavo in particolare la Juventus ma invidiavo sotto sotto Omar Sivori. Che riabilitai quando passò con Altafini al Napoli. Lo consideravo un fantasista capitato per caso tra i ragionieri, un argentino oriundo catturato dai piemontesi e costretto a passare dai cavalli della pampa alle autovetture Fiat. Con un nome da arabo, un cognome nostrano e un’origine sudamericana, Sivori condensava il meridione del mondo. A Napoli fu il precursore di Maradona. Amavo i suoi calzettoni scaduti che erano il segno dell’estro, del disordine creativo e che diventarono una moda per tanti attaccanti di periferia. Nel nome suo e di Hamrin, portavo anch’io i calzettoni scaduti e mi sentivo nel mito.
Hamrin ai miei occhi era nato per me con la maglia viola e il suo giglio gentile, di cui era la trasfigurazione umana. Non riuscivo nemmeno a guardare le sue foto precedenti con la maglia della Juve o postume con la maglia del Milan; mi sembrava una perversione, un sequestro di persona, un trapianto mostruoso, un uccello divino costretto in una divisa a strisce diaboliche…
A dir la verità, mi sorprese sapere qualche anno fa che Hamrin il mito viveva a Firenze e aveva pure un negozio. Mi pareva inconcepibile: per me Hamrin era come Peter Pan o il gatto con gli stivali, un personaggio fiabesco, il sogno viola di un bambino tifoso al primo stadio. E invece aveva una vita da comune mortale. Non pensavo nemmeno che Hamrin potesse morire; lo immaginavo fuori dal tempo e dal gioco, nel mito, a dribblare la vecchiaia e fare melina con la morte, palleggiando all’infinito e sorprendendo la vita in contropiede, fino al gol. Non dirò la solita frase: con lui scompare un pezzo della mia infanzia. Perché i pezzi perduti sono così tanti che mi ci sono perso io. L’Uccellino ha preso il volo…
(Panorama, n.8)