La Cina alla conquista di Hollywood

La Cina alla conquista di Hollywood

di Judith Bergman 25 gennaio 2021

Pezzo in lingua originale inglese: China: The Conquest of Hollywood
Traduzioni di Angelita La Spada

Un produttore di Hollywood ha detto a PEN America che le proposte di progetti critici nei confronti della Cina hanno suscitato il timore che “voi o la vostra impresa sarete fattivamente inseriti nella lista nera e ciò interferirà con il vostro attuale o futuro progetto. Quindi, non solo pagherete lo scotto [della vostra decisione], ma lo pagheranno anche la vostra azienda e le future imprese per le quali lavorerete. E questo pericolo lo teniamo sempre in mente”.

“Non è solo il problema di Hollywood, o il problema tecnologico, non è solo la questione del basket o dello sport o di vari altri settori. (…) Riguarda tutti i settori. Per distribuire prodotti e servizi in quel mercato, ci sono determinate regole da rispettare (…) in modo che vi sia consentito l’accesso ai consumatori. Ma questi processi (…) sono peggiorati sempre più (…) e sono sempre più amplificati nel tempo. (…) Siamo arrivati al punto in cui dobbiamo fermarli ora e contrattaccare oppure perderemo…”. – Chris Fenton, dirigente di Hollywood e autore di Feeding the Dragon: Inside the Trillion Dollar Dilemma Facing Hollywood, the NBA, and American Business. voanews.com, 16 ottobre 2020.

Il problema va oltre il semplice business cinematografico.

Chairman of China's Wanda Group Wang Jianlin (2nd L) attends the opening ceremony of the Wanda Qingdao Movie Metropolis in Qingdao, China's Shandong province on April 28, 2018. - A massive "movie metropolis" billed as China's answer to Hollywood opened on April 28, aiming to boost the domestic film industry and attract foreign producers. (Photo by WANG ZHAO / AFP)        (Photo credit should read WANG ZHAO/AFP via Getty Images)
 A ottobre, per la prima volta, la Cina ha superato il Nord America divenendo il più grande mercato cinematografico al mondo. Nella foto: Wang Jianlin (secondo da sinistra), presidente del colosso cinese Wanda Group, partecipa alla cerimonia di apertura del Wanda Qingdao Movie Metropolis, pubblicizzato come “la risposta cinese a Hollywood”, a Qingdao, il 18 aprile 2018. (Foto di Wang Zhao/AFP via Getty Images)

A ottobre, per la prima volta, la Cina ha superato il Nord America divenendo il più grande mercato cinematografico al mondo. “In Cina, la vendita dei biglietti del cinema nel 2020, domenica, si è attestata a 1.998 miliardi di dollari, superando l’incasso complessivo del Nord America che è di 1.937 miliardi di dollari, secondo i dati di Artisan Gateway. Si prevede che il divario aumenterà notevolmente entro la fine dell’anno”, ha scritto The Hollywood Reporter il 18 ottobre scorso. “Gli analisti prevedono da tempo che il Paese più popoloso al mondo, un giorno sarebbe arrivato in cima alle classifiche mondiali. Ma i risultati rappresentano ancora un epocale cambiamento storico”.

“È finalmente arrivato il giorno in cui la Cina è il mercato cinematografico numero 1 al mondo, superando nel 2020 l’incasso totale del botteghino del Nord America e la Cina è ufficialmente il più grande mercato cinematografico del mondo”, ha affermato un articolo auto-incensatorio pubblicato sul sito web del portale governativo autorizzato della Cina, diretto anche dall’Ufficio Informazione del Consiglio di Stato, conosciuto come Ufficio per la Propaganda Estera del Partito Comunista cinese, China.org.cn. L’articolo, pubblicato il 20 ottobre, continua citando il campione di incassi cinese The Eight Hundred, un film ambientato durante la Seconda guerra mondiale che ha come protagonisti un gruppo di soldati cinesi sotto assedio da parte dell’esercito giapponese, pellicola che ha incassato di più al mondo nel 2020, così come un paio di altri film girati in Cina in uscita nell’ultimo trimestre del 2020.

È questo a ciò cui sta lavorando il Partito Comunista cinese da un decennio; un comunicato diffuso nell’ottobre 2011, parlava della “urgenza” di rafforzare “il potere debole [della Cina] e l’influenza internazionale della propria cultura” e del desiderio di “trasformare il nostro Paese in una superpotenza culturale socialista”.

Lo sviluppo è una cattiva notizia per Hollywood, che da anni cerca di ottenere un maggiore accesso all’enorme e redditizio mercato cinese. La Cina non si affida più ai campioni di incassi per riempire le proprie sale cinematografiche. Hollywood, tuttavia, ha bisogno del mercato cinese per fare in modo che i suoi film siano un successo finanziario.

Dal 2012, il Partito Comunista cinese (PCC) ha permesso di proiettare nelle sale cinematografiche solo 34 film stranieri e prima del 2012 ancora meno. Nell’enorme e redditizio mercato cinese possono perfino essere presi in considerazione soltanto i film che soddisfano le rigide richieste dei censori del Dipartimento per la Propaganda del Comitato Centrale del PCC. Tale Dipartimento è responsabile della “supervisione della produzione, della distribuzione e della proiezione dei film nazionali e dell’organizzazione della revisione dei contenuti delle pellicole (…) dell’importazione e dell’esportazione di tutti i film, dei contenuti mediatici, delle pubblicazioni e di altri contenuti (…) inclusa qualsiasi cooperazione con organizzazioni estere”. Il Dipartimento per la Propaganda del Comitato Centrale lavora per “attuare gli orientamenti della propaganda del partito”.

“I regolamenti e le procedure cinesi per l’approvazione dei film stranieri riflettono la posizione del Partito Comunista cinese, secondo cui l’arte, inclusi i film, è un metodo di controllo sociale”, nelle parole contenute in un documento di ricerca del 2015, a cura dell’US-China Economic and Security Review Commission, dal titolo “Directed by Hollywood, Edited by China: How China’s Censorship and Influence Affect Films Worldwide”.

“A seguito di queste normative, i registi di Hollywood sono tenuti a tagliare scene, dialoghi e tematiche che possono essere percepiti come un’offesa al governo cinese. Con un occhio alla distribuzione in Cina, i registi americani montano sempre più i film tenendo conto delle numerose potenziali sensibilità dei censori cinesi”.

“I decisori di Hollywood”, osserva un rapporto di agosto dal titolo Made in Hollywood, Censored by Beijing, pubblicato da PEN America “tengono sempre più conto delle regole della censura del PCC quando decidono a quali progetti cinematografici devono dare il via libera…”.

“Il Partito Comunista cinese (…) influenza notevolmente la possibilità che un film di Hollywood sia redditizio o meno, e gli studi di produzione lo sanno. Ne risulta un sistema in cui i burocrati di Pechino possono richiedere modifiche alle pellicole prodotte a Hollywood – o possono pretendere che gli addetti ai lavori di Hollywood anticipino e apportino spontaneamente questi cambiamenti – senza rilevanti urla e proteste a causa di tale censura.”

Secondo PEN America, “Pechino usa la sostanziale influenza che ha su Hollywood per fini politici”.

“Occorre indurre i responsabili delle decisioni prese a Hollywood a presentare un’immagine asettica e positiva della Cina e del suo partito al governo e incoraggiare i film prodotti a Hollywood a promuovere messaggi in linea con i suoi interessi politici. L’obiettivo di Pechino non è solo quello di evitare che la propria popolazione riceva messaggi ritenuti contrari ai suoi interessi, sebbene questo sia un elemento importante del suo assetto di censura. Piuttosto, il PCC vuole influenzare in modo proattivo Hollywood a raccontare storie che lo adulino e favoriscano i suoi interessi politici”.

La censura assume forme diverse. Ci sono film che Hollywood non produce più perché potrebbero turbare il PCC e porrebbero immediatamente fine a tutte le relazioni d’affari con la Cina. Tra tali pellicole ci sarebbero quelle dalle tematiche politiche, come Kundun e Sette anni in Tibet, sull’invasione della Cina e sull’occupazione del Tibet, o L’angolo rosso, sulle violazioni dei diritti umani nel sistema legale cinese. Dopo che quei film vennero girati nel 1997, la Cina interruppe le relazioni d’affari con i tre studi cinematografici di Hollywood che distribuivano queste pellicole e piuttosto vennero diffuse delle scuse. “Abbiamo commesso un errore stupido. La cattiva notizia è che il film è stato girato, quella buona è che nessuno lo ha visto”, disse nel 1998 Michael Eisner, amministratore delegato della Disney, al premier cinese Zhu Rongji in merito al film Kundun. “Vorrei cogliere l’occasione per porgere le mie scuse e in futuro dovemmo evitare che accada questo genere di cose, che offendono i nostri amici.”

Ma non sono vietate soltanto le questioni politiche più delicate. Anche le raffigurazioni di fantasia dei cattivi cinesi vengono rimosse dalle pellicole cinematografiche di Hollywood, prima che vengano visionate da un censore cinese. Red Dawn (Alba rossa), un remake di un vecchio film su una fantomatica invasione sovietica dell’America, è stato alterato digitalmente, cambiando i soldati cinesi invasori in coreani, per non far sembrare cattivi i cinesi. All’epoca, un produttore e distributore di film in Cina, Dan Mintz, della DMG Entertainment, dichiarò che se la pellicola fosse stata distribuita senza modificare gli invasori cinesi “ci sarebbe stato un vero e proprio contraccolpo. È come essere invitati a una cena e offendere tutta la sera il padrone di casa. Non c’è modo di fare buona impressione. (…) Il film in sé non è stata una mossa intelligente”.

A volte, i fatti vengono manipolati per adattarli a una narrazione che piaccia alla Cina. Nella trama del film del 2013, Gravity, in cui Sandra Bullock interpretava il ruolo di un’astronauta americana, i detriti di un satellite russo danneggiarono la navetta spaziale della Bullock e lei si salvò raggiungendo una stazione spaziale cinese. In realtà, tuttavia, “i russi non hanno mai inviato un missile in uno dei loro satelliti, come si vede nel film. Mai i cinesi lo fecero nel 2007”, ha scritto Michael Pillsbury nel libro The Hundred Year Marathon.

“I funzionari dell’intelligence statunitense non hanno ricevuto alcun avvertimento da parte dei cinesi sul lancio di missili e al contrario erano stati ripetutamente rassicurati del fatto che il governo cinese non aveva un programma antisatellite. I cinesi hanno incautamente creato il campo di detriti spaziali più grande e pericoloso della storia, ma nel film ne hanno colpa i russi. L’effetto di queste errate rappresentazioni è che in Gravity i cinesi sembrano eroi (…) gli sceneggiatorii hanno fatto di tutto per travisare la storia di ciò che è accaduto nello spazio…”

Un produttore di Hollywood ha detto a PEN America che le proposte di progetti critici nei confronti della Cina hanno suscitato il timore che “voi o la vostra impresa sarete fattivamente inseriti nella lista nera e ciò interferirà con il vostro attuale o futuro progetto. Quindi, non solo pagherete lo scotto [della vostra decisione], ma lo pagheranno anche la vostra azienda e le future imprese per le quali lavorerete. E questo pericolo lo teniamo sempre in mente”.

Un altro produttore di Hollywood ha dichiarato: “È difficile immaginare come autocensurarsi. (…) Non sai proprio cosa sia giusto e cosa sia sbagliato”. La Cina mantiene deliberatamente l’opacità delle regole della censura. Tale ambiguità assicura che i produttori di Hollywood preferiscono autocensurarsi ulteriormente anziché rischiare di essere bocciati dalla censura.

Gli studi di Hollywood tentano però di aggirare la quota dei 34 film stranieri all’anno optando per la coproduzione cinematografica con produttori cinesi, e conferendo in tal modo al PCC il controllo creativo del progetto. Anche tali partnership spesso sembrano assecondare la Cina. The Meg (Shark – Il primo squalo), una coproduzione tra Stati Uniti e Cina che incassato di più, è stata considerata da qualcuno “una pallida copia di Jaws (Lo squalo). “In questo film gli occidentali vengono inghiottiti interi o fatti a pezzi. Gli orientali invece muoiono tutti con eleganza, con il viso illeso…”, ha commentato uno spettatore. Un altro ha detto: “Questo megalodonte, che mangia solo stranieri e lascia indenne una spiaggia piena di cinesi, è così attento”.

La Cina esercita “un’incredibile influenza su Hollywood”, afferma Chris Fenton, dirigente di lunga data di Hollywood e autore di Feeding the Dragon: Inside the Trillion Dollar Dilemma Facing Hollywood, the NBA, and American Business.

“Anche se un particolare film o una serie TV non ha necessariamente bisogno del mercato cinese per essere redditizio. Forse alcuni produttori diranno: “Il budget per questo film non necessita del mercato cinese per avere dei ricavi. Ci lavoreremo. Sentitevi liberi di scrivere la sceneggiatura e fatelo per l’America e per altri Paesi democratici. Ma la Cina finisce sempre per scoprire questi film. E anche se quella particolare pellicola non arriva in Cina, Pechino sanzionerà lo studio cinematografico e tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di quel particolare film, in modo che non potranno lavorare ad altre produzioni”.

La maggior parte degli spettatori probabilmente non sa che il PCC ha voce in capitolo sul film che stanno vedendo: i film hollywoodiani che sono stati censurati non hanno un’etichetta che lo attesti. E la censura del PCC non è un argomento di cui Hollywood è disposta a parlare apertamente. “Una delle cose più sorprendenti della ricerca condotta da PEN America è la riluttanza dei professionisti di Hollywood a parlare esplicitamente o pubblicamente di questo problema, rileva Made in Hollywood, Censored by Beijing.

“I motivi di questa riluttanza sono molteplici, ma ruotano tutti attorno al timore di una reazione negativa, da parte di Pechino, del loro datore di lavoro o da parte di Hollywood in generale. Come ha dichiarato un produttore hollywoodiano a PEN America, “tutti noi abbiamo paura di essere citati in un articolo che parli anche genericamente del ruolo della Cina a Hollywood”.

È assurdo, a dir poco, che Hollywood si sottometta alla censura e assecondi il PCC per trarre benefici economici, pur vendendosi allo stesso tempo come un’industria progressista che afferma di alzare la testa contro il potere, che difende la giustizia sociale e le pari opportunità per tutti, a prescindere dal genere, dal colore delle pelle, dall’etnia, dalla religione o dall’orientamento sessuale. Una tale pretesa mal si concilia con il fatto che i tibetani e i musulmani uiguri, per citare solo due gruppi, sono banditi dall’universo hollywoodiano, solo perché lo ha detto il PCC. Di certo, questo è un argomento che dovrebbe essere continuamente messo in discussione e dibattuto a gran voce, a meno che ora non ci sia un consenso generale sul fatto che il PCC debba avere ineluttabilmente voce in capitolo sui film realizzati negli Stati Uniti, in Europa e altrove. Se questo è ciò che accade nei grandi studi senza che venga opposta alcuna resistenza, che speranza hanno gli studi più piccoli, i registi indipendenti e altri?

Il problema va oltre il semplice business cinematografico.

“Non è solo il problema di Hollywood, o il problema tecnologico, non è solo la questione del basket o dello sport o di vari altri settori. (…)”, afferma Chris Fenton.

“Riguarda tutti i settori. Per distribuire prodotti e servizi in quel mercato, ci sono determinate regole da rispettare (…) in modo che vi sia consentito l’accesso ai consumatori. Ma questi processi (…) sono peggiorati sempre più (…) e sono sempre più amplificati nel tempo. (…) Siamo arrivati al punto in cui dobbiamo fermarli ora e contrattaccare oppure perderemo…”

Judith Bergman è avvocato, editorialista e analista politica. È Distinguished Senior Fellow presso il Gatestone Institute.