Io e la violenza
È tutta questione di… onnipotenza.
Ogni periodo storico che la nostra umanità ha attraversato è stato caratterizzato da un insieme di situazioni di luce e di ombre.
Non dico certamente qualcosa di nuovo, anche se, forse, nella nostra contemporaneità, sembra di assistere alla presenza di una differenza di intensità, rispetto all’espressione della luminosità e dell’oscurità.
Scrivo “sembra”, perché non ne sono del tutto sicuro.
In effetti, se pensiamo allo stile di vita che ha caratterizzato l’Impero Romano, e, ancora prima, l’Antica Grecia, per non parlare delle grandi civiltà dell’Asia Minore, dobbiamo ammettere che le fonti storiche ci raccontano azioni violente, perpetrate dalle diverse forme di potere.
Insomma, la relazione che possiamo definire di dominio-sottomissione ha caratterizzato lo sviluppo dell’umanità, la quale, utilizzando l’affermazione della propria identità culturale come funzionale alla vita di un qualsiasi gruppo umano, territorialmente organizzato, ha fatto dell’aggressione il proprio stile di vita.
Nessuna etnia è esente da questo processo esistenziale, che, peraltro, condividiamo con quei nostri vicini evolutivi che sono i primati non umani. Con questi ultimi, in effetti, abbiamo in comune il 98% del nostro intero genoma, che è costituito da circa 30.000 geni. Quindi la differenza biologicamente rilevante fra noi, primati umani terricoli e le scimmie, primati non umani arboricoli, è affidata all’esiguo restante 2%.
Eppure, all’interno di questa differenza non è stato ancora selezionato uno stile cognitivo esistenziale che permetta l’abbandono di atteggiamenti di dominazione a svantaggio di persone che risultano pertanto oppresse.
Alessandro Manzoni ha fondato la sua fortuna intellettuale e culturale (I promessi sposi) proprio su questa caratteristica umana, raccontando come l’essenza della vita umana si snodi fra soprusi, violenza, difese e fughe.
Sappiamo che la storia non è maestra di vita, e, nonostante questo continui ad essere vero e sotto gli occhi di tutti, io continuo a credere che le mie gocce di speranza e di positività siano utili, nonostante sarò altrove quando sarà possibile godere dello spettacolo del miglioramento.
Come agisco, per produrre, giustificare e mantenere viva in me e negli altri questa speranza?
Continuo a credere che si possa migliorare, e lo comunico in ogni dove, specialmente quando sono di fronte ai miei giovani studenti, ossia a tutti coloro che tendono a considerarmi un eventuale punto di riferimento, per il loro futuro.
A volte mi rattristo, è vero… oltremodo vero.
Ma, il giorno successivo mi sveglio come se la demotivazione della sera prima non fosse mai sopraggiunta, e continuo a comunicare che dobbiamo educarci ed educare gli altri alla solidarietà.
Sarò un sognatore?
Certo, consapevolmente e felicemente. E poi, non saprei essere diverso da così, perché i miei genitori questo mi hanno insegnato, ed ho incontrato insegnanti, maestri, che hanno confermato in me questa visione.
Dunque, resto un uomo felice e positivo, specialmente di fronte a tanto buio e male.
Alessandro Bertirotti si è diplomato in pianoforte presso il Conservatorio Statale di Musica di Pescara e laureato in Pedagogia presso l’Università degli Studi di Firenze. È docente di Psicologia per il Design all’Università degli Studi di Genova, Scuola Politecnica, Dipartimento di Scienze per l’Architettura ed è attualmente Visiting Professor di Anthropology of Mind presso l’Universidad Externado de Colombia, a Bogotà e presidente dell’International Philomates Association. È membro della Honorable Academia Mundial de Educación di Buenos Aires e membro del Comitato Scientifico di Idea Fondazione (IF) di Torino, che si occupa di Neuroscienze, arte e cognizione per lo sviluppo della persona. Ha fondato l’Antropologia della mente (www.bertirotti.info).