Multiculturalisti che lavorano per indebolire la civiltà occidentale
di Philip Carl Salzman 4 gennaio 2018
Pezzo in lingua originale inglese: Multiculturalists Working to Undermine Western Civilization
Traduzioni di Angelita La Spada
A differenza del postmodernismo, che considera la cultura occidentale non migliore di altre culture, il postcolonialismo considera la cultura occidentale inferiore alle altre culture.
Più che migliorare la cultura occidentale attraverso l’arricchimento offerto nei paesi con radici giudaico-cristiane da differenti gruppi etnici e religiosi, i multiculturalisti rifiutano di fatto la propria cultura occidentale.
L’Occidente, anche se imperfetto, offre comunque più libertà e prosperità a un maggior numero di persone come mai prima d’ora. Se la civiltà occidentale vuole scampare a questo disprezzo, farebbe bene a ricordare alla gente i suoi successi storici: l’umanesimo e i valori morali derivanti dalle tradizioni giudaico-cristiane; il suo pensiero illuminista; le sue rivoluzioni tecnologiche; la sua evoluzione politica in una vera democrazia; la separazione della Chiesa dallo Stato; il suo impegno per i diritti umani e soprattutto la sua libertà di espressione gravemente minacciata. Gran parte di ciò che c’è di buono nel mondo si deve solo alla civiltà occidentale. È di vitale importanza non buttarlo via né di perderlo.
Negli ultimi dieci anni, molti in Occidente hanno affinato una narrazione storicamente senza precedenti – una narrazione che non solo rinuncia alla cultura che hanno ereditato, ma che nega la sua stessa esistenza. Qui di seguito alcuni esempi.
Durante una conferenza stampa tenutasi a Strasburgo nel 2009, ad esempio, l’allora presidente americano Barack Obama iniziò a sminuire l’unicità degli Stati Uniti. “Credo nell’eccezionalismo americano, esattamente come gli inglesi credono nell’eccezionalismo britannico e i greci in quello greco”.
Inoltre, nel 2010, Mona Ingeborg Sahlin, che all’epoca era la leader del Partito socialdemocratico svedese, raccontò a un raduno dell’organizzazione giovanile turca Euroturk:
Non riesco a capire quale sia la cultura svedese, penso che sia ciò che rende gelosi molti svedesi dei gruppi di immigrati. Voi [immigrati] avete una cultura, un’identità, una storia, qualcosa che vi unisce. E noi cosa abbiamo? Noi abbiamo la festa di mezza estate ed altre sciocchezze del genere”.
Nell’ottobre 2015, Ingrid Lomfors, a capo del “Forum for Lving History” un ente pubblico svedese, disse ai funzionari del gruppo: “Non esiste una cultura svedese autoctona”.
Nel novembre 2015, il neopremier canadese Justin Trudeau rilasciò un’intervista al New York Times, pubblicata poi il mese dopo, in cui affermava:
“In Canada, non c’è nessuna identità principale, nessun mainstream. Ci sono valori condivisi – l’apertura, il rispetto, la compassione, la volontà di lavorare duro e di essere disponibili per gli altri, la sete di uguaglianza e di giustizia. Queste qualità sono ciò che ci rendono il primo Stato post-nazionale del mondo”.
Nel dicembre 2015, l’ex premier svedese Fredrik Reinfeldt, presidente del Consiglio europeo nel 2009, rilasciò un’ intervista a TV4 prima delle sue dimissioni dalla leadership del Partito Moderato, in cui si chiedeva retoricamente:
“Questo è un paese che appartiene a coloro che vivono qui da tre o quattro generazioni oppure la Svezia è ciò che la gente che arriva qui a metà della vita rende tale? (…) A mio avviso, dovrebbe essere ovvia la seconda ipotesi e che una società sarebbe più forte e migliore se fosse aperta. (…) Gli svedesi non sono interessanti come gruppo etnico”.
Nella fattispecie, dichiarazioni del genere sono state proferite dai leader di Stati Uniti, Svezia e Canada – paesi che hanno una tradizione letteraria, musicale, artistica e culinaria diversa, oltre ad avere distinti sistemi giudiziari e governativi. Ma sono due le cose che le opinioni dei cinque leader hanno in comune: un’ideologia postmoderna e il bisogno di voti delle minoranze e degli immigrati.
Il postmodernismo ha due elementi chiave: il relativismo culturale e il postcolonialismo. Il relativismo culturale – sviluppato dall’antropologa americana Ruth Benedict, autrice del best-seller mondiale del 1934 Patterns of Culture (Modelli di cultura), e dal suo mentore, il “padre dell’antropologia americana”, Franz Boas – ha postulato che i ricercatori devono mettere da parte i loro valori e i pregiudizi culturali, e mantenere una mente aperta riguardo ai valori e ai pregiudizi delle culture di altri popoli per comprenderle. Nella seconda metà del XX secolo, i teorici dell’antropologia estesero questo all’ambito dell’etica, sostenendo che i giudizi derivanti da una cultura non potevano essere applicati ad altre culture – rendendo così tutte le culture altrettanto positive e preziose. Questa visione indusse l’American Anthropological Association, nel 1947, a respingere la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, che divenne la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, elaborata nel 1947 dalla Commissione sui Diritti umani delle Nazioni Unite.
Il postcolonialismo sostiene che i popoli di tutto il mondo andavano d’accordo tra loro fino a quando gli imperialisti occidentali non li invasero, li divisero, li conquistarono, li sfruttarono e li oppressero. A differenza del postmodernismo, che considera la cultura occidentale non migliore di altre culture, il postcolonialismo considera la cultura occidentale inferiore alle altre culture.
Alla base di questo ripudio della cultura occidentale sembrano esserci tre fattori: il senso di colpa, la globalizzazione e la demografia. Molte nazioni occidentali – come la Gran Bretagna, la Francia, il Belgio, l’Olanda, la Spagna, il Portogallo e l’Italia – avevano imperi nella parte meridionale e orientale del globo tra il XVII e il XX secolo. Oggi, però, queste conquiste del passato sono considerate infauste da molti paesi che le hanno compiute e sono viste negativamente anche da nazioni non imperialiste come la Svezia e il Canada, quest’ultimo una colonia occidentale. La Germania, tardiva e marginale potenza imperialista, sembra sentirsi ancora in colpa per l’Olocausto. Paradossalmente, la decisione di accogliere innumerevoli nuovi arrivati in Europa, come se fossero i “nuovi profughi ebrei” di questo secolo ha causato una seconda fuga di ebrei.
E il senso di colpa non finisce qui. I paesi occidentali sono prosperi, con la maggior parte dei loro cittadini che godono quanto meno di un tenore di vita confortevole, mentre gran parte delle popolazioni africane e asiatiche vivono in povertà. Pertanto, molti occidentali ritengono che sia necessario redimersi, sotto forma di aiuti finanziari alle ex-colonie e accogliendo incondizionatamente nei paesi del Vecchio Continente migranti e profughi provenienti da quelle aree.
Intanto, la globalizzazione economica ha indotto i paesi occidentali ad avere acquirenti e investitori in tutto il mondo, appartenenti a culture disparate, ma il trionfalismo occidentale è considerato come inadeguato alle relazioni economiche produttive.
Per quanto riguarda la demografia, negli ultimi decenni si è assistito a un aumento del flusso di popolazioni, causato in parte dal basso tasso di natalità in Occidente – con un livello di sostituzione notevolmente inferiore. Questo, a sua volta, ha evidenziato la necessità di manodopera per sostenere, o addirittura per far crescere, le economie. Il risultato è che la popolazione di ogni paese occidentale è più disomogenea a livello etnico, religioso e culturale. Per accogliere i migranti, aiutarli a integrarsi e mostrargli solidarietà, le loro nuove società dei paesi occidentali hanno incoraggiato un’apertura multiculturale, sminuendo la specificità delle proprie culture.
E questo ci porta alla questione elettorale: i politici delle democrazie occidentali che cercano di essere eletti, spesso sminuiscono le loro culture per raccogliere i voti degli immigrati e delle minoranze. Più grandi sono le comunità degli immigrati, più forte è l’incentivo a ingraziarsele. Alcune minoranze in crescita, come i musulmani in Europa, stanno formando i propri partiti politici per competere con quelle tradizionali.
Questo connubio di postmodernismo e politica elettorale sta avendo un terribile effetto sulle società che si vantano dell’apertura e della diversità. Più che migliorare la cultura occidentale attraverso l’arricchimento offerto nei paesi con radici giudaico-cristiane da differenti gruppi etnici e religiosi, i multiculturalisti rifiutano di fatto la propria cultura occidentale. Mentre incoraggiano la diversità di razza, religione e tradizioni, proibiscono la diversità delle opinioni, in particolar modo quelle che non si conformano alla narrativa che si oppone all’Occidente. I multiculturalisti sembrano anche non volere riconoscere che l’Occidente, anche se imperfetto, offre comunque più libertà e prosperità a un maggior numero di persone come mai prima d’ora.
Questa visione distorta dell’Occidente è possibile solo se si rifiuta ostinatamente di vedere chi, storicamente, erano i veri colonizzatori. Come pensano che tutto il Medio Oriente e il Nord Africa siano diventati musulmani, attraverso un referendum democratico? I musulmani invasero e trasformarono l’Impero bizantino cristiano, che ora è una Turchia sempre più islamizzata; la Grecia, il Medio Oriente, il Nord Africa, i Balcani, l’Ungheria, Cipro Nord e la Spagna.
Se la civiltà occidentale vuole scampare a questo disprezzo farebbe bene a ricordare alla gente i suoi successi storici: l’umanesimo e i valori morali derivanti dalle tradizioni giudaico-cristiane; il suo pensiero illuminista; le sue rivoluzioni tecnologiche; la rivoluzione agricola e quella industriale del XVIII secolo nonché la rivoluzione digitale del XX secolo; la sua evoluzione politica in una vera democrazia; la separazione della Chiesa dallo Stato; il suo impegno per i diritti umani e soprattutto la sua libertà di espressione gravemente minacciata. Nel mondo, tutte le società avanzate hanno preso in prestito molti tratti della cultura occidentale; non avrebbero potuto definirsi avanzate se non lo avessero fatto. Gran parte di ciò che c’è di buono nel mondo si deve solo alla civiltà occidentale. È di vitale importanza non buttarlo via né di perderlo.
Philip Carl Salzman è docente di antropologia presso la McGill University, fellow del Middle East Forum e senior fellow del Frontier Center.