𝐈𝐧 𝐫𝐢𝐜𝐨𝐫𝐝𝐨 𝐝𝐢 𝐮𝐧 𝐢𝐭𝐚𝐥𝐢𝐚𝐧𝐨 𝐟𝐢𝐞𝐫𝐨
Se fosse possibile io manderei in onda il video che Al Jazeera non ha voluto mostrare al mondo e all’islam su come sa morire un italiano, Fabrizio Quattrocchi.
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In ricordo di un italiano fiero
Se fosse possibile io manderei in onda il video che Al Jazeera non ha voluto mostrare al mondo e all’islam su come sa morire un italiano, Fabrizio Quattrocchi. Non credo che l’emittente islamica lo faccia per delicatezza e pudore: lo fa per non mostrare il volto atroce del fanatismo islamico e il volto fiero e dignitoso di un italiano, di un europeo, di un figlio della civiltà cristiana. A chi si dice contrario anche da noi a mostrare immagini cruente come quelle io rispondo che la spettacolarizzazione della morte e del dolore non piacciono anche a me. Però in questo caso non c’è solo il diritto-dovere di cronaca, e di mostrare la verità come ogni giornalista e testimone verace dovrebbe volere; ma c’è anche la convinzione che di fronte a tanto abuso di tv choc, di fronte all’esibizione di operazioni chirurgiche, parti in diretta, pianti e raccapricci direttamente a casa vostra, mostrare la dignità con cui un ragazzo italiano affronta la morte, si libera del turbante perché vuol vedere in faccia l’istante supremo e i suoi sicari, e grida ai suoi killer: “Vi faccio vedere come sa morire un italiano”, sia un video significativo, vorrei dire educativo, esemplare. Non solo per suscitare nel nostro paese e nell’occidente la dignità di appartenere a questa civiltà, a questa tradizione, a questa identità nazionale. Ma anche per non essere disarmati, psicologicamente in fuga, dal duro conflitto a cui ci chiama la storia. Intendiamoci. Continuo a credere che la guerra in Iraq sia stata sbagliata, che i motivi veri del conflitto non siano state le armi temibili che, come s’è visto, Saddam non aveva. E non amo affatto la violenza dello scontri di civiltà a cui ci chiama Oriana Fallaci. Dico solo che in questo frangente che ci vede giocoforza esposti in Iraq, bisogna aggiungere al realismo delle scelte la fierezza, la dignità, l’orgoglio sobrio di essere italiani. Facendo tesoro di esempi come quello tragico di Fabrizio Quattrocchi.
Beato un popolo che non ha bisogno di eroi, diceva Bertolt Brecht. Ma non esiste un popolo che non abbia bisogno di eroi. Se un popolo non ha bisogno di eroi ha smesso di essere un popolo, è solo una massa di consumatori, di individui voraci ed egoisti che si vivono e si muoiono addosso. E quando un popolo non trova eroi se li fabbrica di cartapesta, insegue i surrogati, li noleggia da altri popoli. Questo è accaduto per molto tempo agli italiani che si sono fabbricati i loro eroi con la fiction, con i divi dello spettacolo e dello sport o hanno importato gli eroi dal resto del mondo, America in testa. In questo siamo un popolo di albertisordi, nel senso del vile e antieroico personaggio che il comico romanesco ha mirabilmente rappresentato nel cinema. Non sono stati eroici i moventi che avevano spinto Fabrizio Quattrocchi a rischiare la pelle in Iraq; c’è probabilmente un intreccio di interessi e voglia di avventura.
Credo che un paese debba valorizzare questi esempi, saperli onorare come si conviene ad un popolo non bellicoso, ma capace di difendere con decoro le proprie ragioni e i propri interessi.
Mi chiedo piuttosto: siamo un paese all’altezza di questi gesti, esiste nel nostro paese, nelle istituzioni, nel ceto dirigente, nella classe politica, un adeguato senso della patria, delle istituzioni, dell’identità italiana? Temo di non poter dare una risposta positiva. Dobbiamo ritrovare il senso dello stato, del decoro, dello spirito pubblico; non possiamo confondere il senso dello Stato con lo statalismo che è la sua obesa caricatura, né lo spirito pubblico con l’intervento pubblico in economia. Quattrocchi ha espresso valori che sono soprattutto “di destra”, per quel che possono ancora valere queste categorie. Si tratta di riscoprire uno stile di vita italiano. Oggi in un’epoca che riduce lo stile a un fatto puramente esteriore, di abbigliamento, design e moda, o peggio di mobilia e beauty farm, si tratta di recuperare la nobile gratuità di uno stile di vita, anche se costa qualche sacrificio. Si dirà che c’è molto estetismo, molto dannunzianesimo, nel culto della beau geste; forse è vero, ma lo preferisco all’estetismo del lifting. Preferisco l’Italia degli esteti a quella della chirurgia estetica.
(Il Giornale, 17 aprile 2004)