𝐈𝐥 𝐩𝐞𝐧𝐬𝐢𝐞𝐫𝐨 𝐜𝐥𝐚𝐧𝐝𝐞𝐬𝐭𝐢𝐧𝐨 𝐝𝐢 𝐀𝐧𝐝𝐫𝐞𝐚 𝐄𝐦𝐨
L’11 dicembre di quarant’anni fa si spegneva a Roma Andrea Emo, nobiluomo veneto, discendente di dogi, dopo una vita passata in ombra, tra case patrizie e palladiane, come la splendida Villa Emo Capodilista.
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Il pensiero clandestino di Andrea Emo
di Marcello Veneziani
11 Dicembre 2023
L’11 dicembre di quarant’anni fa si spegneva a Roma Andrea Emo, nobiluomo veneto, discendente di dogi, dopo una vita passata in ombra, tra case patrizie e palladiane, come la splendida Villa Emo Capodilista. Lasciò un mare infinito di pagine inedite, quarantamila. Pensieri abissali, solitudini stellari, perfino una militanza da missino, con candidatura al parlamento e scritti per le pagine culturali del Secolo d’Italia e soprattutto uno sciame di letture e di quaderni. Centinaia di taccuini compilati lungo mezzo secolo, anzi di più, in assoluta clandestinità di pensiero, senza mai esporli, di cui escono ogni tanto perle, estratti, fiotti, come in un’Emorragia di pensieri. Come lo squisito libro di aforismi e riflessioni, “La voce incomparabile del silenzio”, a cura di Massimo Donà e Raffaella Toffolo. Emo è il caso raro di un autore nato dopo la sua morte. Vivo post vitam.
Allievo in disparte di Gentile, Emo tracciò nei suoi appunti il versante tragico dell’attualismo gentiliano, ne delineò l’ombra, il negativo. Colse l’immortalità dell’attualità e del fugace istante, “quando è attualità pura, cioè attualità del proprio nulla”. In Gentile fiammeggia la fiducia nello spirito e un operoso ottimismo che confida nell’umano; in Emo l’orizzonte di pensiero resta l’idealismo ma si spegne la fiducia spirituale e il confidare nell’umano. Emo coglie la coincidenza tra essere e niente, nel triangolo tra l’eterno, l’attuale e il nulla. Questo florilegio di Emo è incentrato proprio sulla scrittura. Secondo Emo la maggior parte delle persone scrive per nascondersi, mentre lo scrittore dovrebbe essere quell’uomo d’eccezione che scrive per manifestarsi e dire la realtà. Ma lui non manifestò la sua scrittura, la svolse in segreto. Si definì persona di poco fondamento, inetto a qualunque cosa, con qualche vena di pazzia. Se un giorno sarà dimenticata la nostra presenza, scrisse, sarà sufficiente che sarà ricordata la nostra assenza. “Ciò che scriviamo è una lunga lettera ad ignoti, a lettori sconosciuti o futuri, che forse non esisteranno mai: che porteranno il nome omerico di: Nessuno”. Il filosofo per lui è l’uomo condannato a dire solo parole definitive; mentre la poesia è sempre in esilio in una regione arida e impoetica e dunque sorge per contrasto con l’ambiente. Il pensiero per lui modifica quel che tocca, mentre il sentimento puro accetta tutto, ne canta la presenza e l’assenza. Il pensiero è maschile, dice Emo in epoca prefemminista, anzi fascista, il sentimento è femminile. In una splendida immagine definisce la poesia come l’arcobaleno che unisce le due rive ignote dell’essere e del non essere. L’arcobaleno è un poste effimero su cui passano i nostri pensieri e le immagini, e tutto ciò che non obbedisce alla forza di gravità. L’arcobaleno, ricordava, concilia il cielo con la terra. La poesia per lui è l’arte delle scorciatoie, l’arte di arrivare in anticipo per vie traverse, sentieri e dirupi, dove il pensiero razionale e riflessivo perviene più lentamente, più faticosamente, mediante le vie maestre. Nei suoi appunti concede poco spazio ai ricordi di vita perché per lui un libro di memorie è un’orazione funebre pronunciata dal morto stesso; nel ricordo, ci sveliamo “attualmente morti”, in una coincidenza attualistica di morte e vita.
Emo non è solo un pensatore aristocratico ma la solitudine rese la cifra del suo pensiero di consapevole solipsista: “Essere l’unico lettore dell’unico proprio libro, della propria unica vita, del proprio unico assoluto…Essere come un principe dello spirito, travestito da mortale che, incognito e ignorato, vive tra i propri sudditi”.
Per compensare il suo esercizio di disperazione, ho affiancato le sue pagine a La parola e la scrittura, un testo di Louis Lavelle del 1942. Lavelle afferma che la parola e la scrittura sono i due miracoli che fanno scendere il pensiero nel mondo della voce e dello sguardo, dell’azione e dello spettacolo, obbligandoli a congiungersi. Tramite la parola e la scrittura, lo spirituale si fa carnale. Emo percorre la stessa via ma in senso inverso: nell’istante della vita e nella veloce parabola della parola il carnale si dissolve nello spirituale. Muore in purezza, come l’Atto puro gentiliano. Non mancano tuttavia incursioni nella realtà storica e politica. Scriveva nei suoi Quaderni che noi abbiamo molte patrie: una nostra patria è la memoria, un’altra patria è l’epoca in cui viviamo, una patria è ogni stagione che torna ciclicamente sulla terra, una patria è l’amore, una patria è “qualche antica e defunta patria”, che può essere un antico linguaggio o un’avita cultura. Una patria è la musica…E concludeva: “Quanti aspetti o possibilità ha la nostra nostalgia? Da quante patrie siamo esiliati?” Possiamo dunque capire e amare la patria solo in esilio, lontani da essa, perduta nello spazio o nel tempo? Un po’ come l’amor platonico, che è poi metafora della visione, quell’amore che dà frutti non attraverso l’unione ma il distacco, la lontananza… Resta il dubbio che vi sia un sovrano – un Dio, un noi, una letteratura – che poi congiungerà il poligono delle patrie, tradurrà la politonia in sinfonia. Quel punto di fusione delle patrie che sul piano storico si chiama civiltà.
Pur nella frammentarietà degli appunti, le opere che ne stanno scaturendo, raccolte per temi, compongono un pensiero organico, coerente. E’ come se dai fondali fossero tratti in superficie arredi e tesori di un relitto sommerso; e ricomposti per materiali affini, figurassero la sagoma maestosa del galeone inabissato. E’ la filosofia di Emo.
Emo scrisse “interminabili lettere alla posterità che la posterità non leggerà mai”. Tutelò il suo pensiero col velo della timidezza, che fu l’imene della sua verginità d’autore. Il timido, scrisse in un suo quaderno del ’32, “è un animo gentile che dà tanta importanza agli altri, non si ritiene degno di esistere e si vergogna di se stesso”. Ma al tempo stesso, notò, il timido coltiva il piacere solitario e aristocratico “di non dover essere grato a nessuno”. Non dipendere da nessuno, neanche dai loro sguardi…Qui c’è tutto Emo, il Filosofo Velato.
(Da Imperdonabili, Feltrinelli, 2020)