𝐈𝐥 𝐦𝐢𝐬𝐭𝐞𝐫𝐨 𝐝𝐢 𝐌𝐨𝐫𝐨 𝐞 𝐥𝐞 𝐭𝐫𝐚𝐦𝐞 𝐚 𝐜𝐮𝐢 𝐫𝐞𝐬𝐭𝐨̀ 𝐢𝐦𝐩𝐢𝐜𝐜𝐚𝐭𝐨
È quasi impossibile spiegare a un ragazzo, a uno straniero, a un postero il caso Moro
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Il mistero di Moro e le trame a cui restò impiccato
È quasi impossibile spiegare a un ragazzo, a uno straniero, a un postero il caso Moro. Già difficile di suo era Moro, il suo linguaggio criptico e involuto, ricco di sfumature e allusioni. Difficile da comprendere fu la sua politica finale, che per taluni era un modo per portare i comunisti al governo, per altri era un modo per svuotarli, per logorarli. Forse per corromperli, come pensavano le Br. Difficile capire se il suo fine fosse portare a compimento la democrazia, superando il bipartitismo imperfetto e legittimando il Pci al governo, così creando la possibilità dell’alternanza; oppure se la strategia consociativa avesse come fine quello di protrarre, seppure in condominio, il potere democristiano, e ripetere coi comunisti quello che era stato già fatto con i socialisti.
Ma ancora più difficile è capire il rapimento e l’assassinio di Moro. Arduo districarsi sulla matrice del sequestro, anche se gli esecutori sono evidenti, i comunisti delle Brigate rosse. Si parlò di Kgb, Cia, Mossad, più i nostri servizi deviati, gli Usa e una fetta di Dc. E poi le voci che alcuni sapessero dove fosse realmente nascosto, qualcuno insinuò perfino di visite “politiche” durante la prigionia di Moro. E’ complicato spiegare che i suoi carnefici erano comunisti come quelli che Moro voleva al governo.
Impossibile da spiegare a chi non visse quel mondo è perché il suo partito, alcuni morotei, il Pci di Berlinguer con cui si stava consociando, ma anche il filo-occidentale partito repubblicano, furono per la fermezza, cioè lo mandarono a morire, non vollero trattare come invece avevano fatto in precedenza. Come vai a spiegare che la motivazione era che Moro fosse ormai ostaggio anche psicologico delle Br, pativa la sindrome di Stoccolma, era quasi passato dalla loro parte e svelava loro i segreti più scottanti del Deep state italiano e atlantico? Anche se fosse vero, la soluzione non era lasciarlo uccidere, semmai acciuffare quei brigatisti che avevano carpito i segreti scottanti del nostro potere. Come fai a spiegare ai posteri che a voler salvare la sua vita e a intavolare una trattativa erano i veri antagonisti del compromesso storico, a partire da Craxi? Impossibili da decifrare erano poi le sue lettere, i suoi messaggi occulti, a cui si sono dedicati perfino libri iniziatici sul significato enigmatico, anzi enigmistico, dei suoi segnali sotto traccia.
Il caso Moro, morta la vittima e presi i colpevoli, è rimasto irrisolto. Ma al suo posto fioriscono le narrazioni. Una di queste è il nuovo film di Marco Bellocchio, naturalmente de sinistra, un tempo anche estrema, che già aveva realizzato un film su Moro. La chiave del suo nuovo film, Esterno Notte, è manichea: Moro il martire, Andreotti il diavolo. Ora caricare sulle spalle curve di un sol uomo, seppur avvezzo a intrighi e trame come Andreotti, tutto il caso Moro, è storicamente infondato. Bisogna da un verso capire il pressing internazionale, americano soprattutto, e dall’altro ricordare che a condannare Moro alla morte fu anche il serafico Berlinguer, il mite Zaccagnini, il furente Pertini, che poi diventò Presidente della Repubblica. Bellocchio, naturalmente, se li dimentica, o li lascia ai margini. Facile demonizzare Belzebù, già noto per il suo mestiere di diavolo, e la leggenda supera di gran lunga la realtà. Cossiga appare correo, ma per Bellocchio lui era un po’ pazzo, bipolare, e non in senso politico, ciclotimico. Facile pure ridurre Moro all’apertura a sinistra, eludendo i dubbi, le sue strategie bizantine e la sua storia antica, non dico il suo filo-fascismo giovanile ma il suo moderatismo destrorso del primo dopoguerra.
Ma poi non si capisce perché il giorno del rapimento doveva essere votato in Parlamento un governo ispirato alla linea Moro, con l’apertura al Pci, guidato – ma guarda un po’ – proprio da Andreotti, voluto dallo stesso Moro.
Bellocchio ha sovrapposto la fiction alla realtà e dunque quando gli conviene può dire che è storia, altrimenti dirà che è pur sempre finzione cinematografica.
Un Moro romanzato, ma non falsificato, è in un libro recente che gli ha dedicato Marco Follini, Via Savoia (La Nave di Teseo) all’epoca giovane democristiano, poi diventato il vice-Premier di Berlusconi ma presto dissidente fino a lasciare la politica. Follini nel libro non nomina mai Moro e molti protagonisti di quel tempo, anche se il libro è dedicato a lui, e di riflesso a loro. E’ scritto bene, non è mai banale; bella, devo dirlo, anche la prefazione di Marco Damilano che definisce l’opera di Follini il primo romanzo storico sulla repubblica italiana (magari c’è qualche precedente). Il libro di Follini, forse involontariamente, disegna un Moro totus democristiano ma non statista. Il Moro di Follini è visitato con discrezione sul piano privato e personale; è visto tutto sul piano politico e di partito; emerge lo stratega democristiano di alto profilo ma non appare mai l’uomo di Stato. Eppure è così che di solito si descrive Moro, lo statista. Invece in Moro, lo sostengo da anni, ha prevalso la ragion politica di partito sulla ragion di Stato e infine la ragione personale su quella politica. Moro non lascia grandi eredità allo stato italiano, ma larghe e raffinate strategie politiche, si occupa più del sistema politico che degli italiani, non lascia grandi riforme ma grandi operazioni di Palazzo. Il personaggio che più gli si avvicina nel suo tempo non è un politico ma Paolo VI, un papa politico. Nel Moro di Follini si parla sempre di politica, di partito, di potere, ma mai di Stato, mai d’Italia. Non è un difetto del libro di Follini ma è il limite di Moro.
Sant’Agostino diceva che non è la pena ma la causa a fare i martiri. San Moro resta solo Tommaso Moro, che fu pure gran politico, cattolico e statista. Follini racconta che Aldo Moro aveva un ritratto di San Tommaso Moro su una parete del suo studio. Ma non erano parenti.
La Verità (20 maggio 2022)