Il filosofo insonne nella notte dell’umanità

𝐈𝐥 𝐟𝐢𝐥𝐨𝐬𝐨𝐟𝐨 𝐢𝐧𝐬𝐨𝐧𝐧𝐞 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐧𝐨𝐭𝐭𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥’𝐮𝐦𝐚𝐧𝐢𝐭𝐚̀
Dieci anni fa, il 6 marzo del 2014, moriva Manlio Sgalambro, l’ultimo erede dall’antica scuola cinica; quest’anno è anche il centenario della sua nascita.

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Il filosofo insonne nella notte dell’umanità
di Marcello Veneziani
07 Marzo 2024

Dieci anni fa, il 6 marzo del 2014, moriva Manlio Sgalambro, l’ultimo erede dall’antica scuola cinica; quest’anno è anche il centenario della sua nascita. Ateo, empio, nichilista la sua salma finì tuttavia nella chiesa del Crocifisso dei miracoli di Catania. Sgalambro, coerentemente col suo pensiero, non ha lasciato nessuna eredità filosofica e nulla poteva lasciare; semmai ha lasciato il nulla come sua eredità ultrafilosofica. Il pensiero, l’elogio, la rapsodia del nulla. Ho letto e annotato tutti i suoi libri, lucidi e impietosi, che cominciò a scrivere in tarda età. Bello pure il volume collettaneo a lui dedicato, Caro Misantropo (ed. la casa di Pitagora).
La sua teoria filosofica si può definire peggiorismo, versione aggravata del pessimismo. Era un’intelligenza libera da ogni accademia che giocava col nichilismo cinico; come un prestigiatore faceva sparire uomini e cose, non solo i valori. Si divertiva a svelare verità a contrario, un po’ come il diavolo, a scoperchiare pentole, a deridere e bestemmiare l’umanità, la vita, Dio. Maledetto, come un Baudelaire agli agrumi di Sicilia; ma al posto della poesia, la teoria.
C’è un’impronta siculo-mediterranea nel pensiero notturno di Sgalambro. Ha contato nascere a Lentini, patria di Gorgia il sofista, non lontano dal Caos, la contrada dove nacque Pirandello. Sgalambro si compiaceva dell’empietà, a cui dedicò un sugoso trattato. A volte il suo gioco si fa scoperto, quasi teatrale, Sgalambro il Maledetto deflora la verità e capovolge la logica. In principio fu la Parola; no, dice lui, alla fine fu la parola. E l’identità non è alle origini perché a suo dire si nasce senza identità. Mancano i valori? Ma no, ne siamo pieni da scoppiare. Suggerisce poi di sostituire l’idea di salvezza con l’idea di perdizione. Il riso separa dagli altri e l’equilibrio del mondo regge sulla distruzione di specie e di ambienti (Schopenhauer e Leopardi al suo cospetto sono due gioviali ottimisti). E via continuando col divertissement filosofico, quasi un nichilismo giunto al dessert. Alla fine, una cassata sostituirà il mondo. Sarà deliziosa, come la sua prosa, anche se nuoce alla salute del pensiero.
Vivere è cosa servile, dice Sgalambro, la felicità è legata solo al pensare. Qui intravedi la sua vena umanistica e la passione di pensare e scrivere. Ma lui ti fredda subito dicendo che il libro è il letamaio che raccoglie i rifiuti di una civiltà. Il suo spirito apocalittico genera un frutto antico e risaputo dalle sue parti: il fatalismo della disperazione. Non c’è niente da fare, niente da dire, solo da maledire. Il filosofo pensa, la storia fa e disfa: resta lo spettacolo delle sue acrobazie mentali e la stasi del suo re-agire.
Nel Dialogo sul comunismo, Sgalambro teorizzò un comunismo fondato sulla comune disperazione, sull’indignazione di essere al mondo e sul rifiuto della natura. Un comunismo leopardiano, contro la natura matrigna. Per il cinico Sgalambro “la maggior parte degli uomini è superflua” e il suo pensiero ricorda Talleyrand quando davanti a un povero che chiedeva l’elemosina dicendo “Anch’io devo pur vivere”, rispondeva con inarrivabile cinismo: “Non ne vedo la necessità”. Strano il suo comunismo antiumanitario, un comunismo da solo a Solo, dice Sgalambro parafrasando Plotino; un comunismo per solitari, solipsista, non collettivista, tutt’altro che trepidante per l’avvenire e le magnifiche sorti e progressive. Tutta la filosofia gli appare come una croce al demerito del mondo. Sgalambro si accanì nel Trattato sull’età con gli estremi della vita, l’infanzia e la vecchiaia, reputandole ambedue nefaste. La vita è una malattia infantile e il vecchio è trafficante di ricordi, è un cimitero vivente di immagini. Tutti i viventi dovrebbero per lui definirsi piuttosto morenti. Valvola di sfogo in età grave fu per lui la musica leggera, i concerti e le serate con Franco Battiato. Prezioso il suo contributo a canzoni come la Cura. L’ho visto dal vivo ispirato e buffo recitare nel tempio di Segesta in un concerto dell’amico cantautore. Per Sgalambro la musica leggera è la vena dionisiaca del nostro tempo, le discoteche sono “piccoli nirvana”, il rock induce piccole estasi e la canzone “è la più breve opera dello spirito eppure ne possiede tutta la solennità” (e la poesia, di solito più breve?). Perfino “i giovani teppisti” gli appaiono in discoteca come “i nuovi platonici”. Per Sgalambro la musica diventa leggera per disperazione; la musica si è fatta mondo, è diventata la realtà. La canzone è vera teoria, e sotto “la pappa del cuore” dei versi melensi affronta il tema del secolo, la morte dello Spirito.

Strano il suo sodalizio con Battiato, che aveva una visione spirituale opposta alla sua. Ma per dirla con l’alchimia, Sgalambro era per Battiato la sua nigredo, lo stadio negativo e mortale che precede il chiarore e la luce (in alchimia albedo e rubedo). Sgalambro riteneva che “con la morte il corpo si libera dell’anima”; ma pur dicendola al contrario, riconosceva un destino diverso all’anima.
Sgalambro usava le lenti scure anche di sera, come il suo amico Battiato, non temeva l’aura jettatoria che gli infondevano, come nella Patente pirandelliana; ma erano coerenti con le sue idee, come gli esistenzialisti col dolcevita nero nei bistrot degli anni cinquanta. Nel suo ultimo libretto di aforismi, Variazioni e capricci morali, Sgalambro spiegò il suo “buio volontario” e la sua “cecità artificiale” come una “condizione perfetta per esercitare la mente”. Solo a un siciliano abbagliato e braccato dal sole era possibile immaginare con sollievo. La morte del sole – che fu il titolo della sua prima opera – o la fuga dal sole tramite le lenti nere. Sgalambro soffriva di teofobia e fotofobia, che paganamente coincidevano. La tradizione per Sgalambro “è solo un misero resto, un cumulo di macerie, ma – aggiunge – non conosco punto d’appoggio migliore”. L’anima, per Sgalambro, non ci appartiene dalle origini ma si forma alla fine della vita, quando siamo esausti, e l’anima “sono i nostri amori, le tenerezze ricevute, le dolcezze ricambiate”. L’anima dura meno di noi, è labile e leggera come una piuma; ma proprio per questa sua evanescenza, dice Sgalambro, va rispettata. A noi, invece, non resta che l’orrore della morte naturale e la speranza nel suicidio. Per Sgalambro, “la morte non è un fatto privato” ma pubblico, “si muore solo per gli altri”, e qui risuona in versione negativa la concezione comunitaria della morte del conterraneo Giovanni Gentile. Ma la vita, a volte, capisce la morte più del pensiero, e insieme, le opposte sorelle – per un mistero sacro o grottesco – si fanno beffe delle filosofie, inclusa quella, nera e cupa, di Sgalambro.

La Verità – 5 marzo 2024