𝐈𝐥 𝐛𝐮𝐨𝐧 𝐬𝐞𝐥𝐯𝐚𝐠𝐠𝐢𝐨 𝐢𝐞𝐫𝐢 𝐞 𝐨𝐠𝐠𝐢
Il mito del buon selvaggio nasce dalla cattiva coscienza di una civiltà che fa i conti con le sue imprese coloniali e critica le sue costrizioni, ipocrisie e servitù.
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Il buon selvaggio ieri e oggi
Il mito del buon selvaggio nasce dalla cattiva coscienza di una civiltà che fa i conti con le sue imprese coloniali e critica le sue costrizioni, ipocrisie e servitù. Alle origini il mito del buon selvaggio nasce da un’aspirazione autentica alla purezza delle origini ma il risultato è un falso naturalismo. Perché idealizza la natura e non vede le sue crudeltà e le sue asprezze, la “natura matrigna” su cui scriverà Leopardi; idealizza l’uomo allo stato di natura, lo ritiene naturalmente buono, sano, sincero, poi corrotto dalla civiltà e dalle sue costruzioni politiche, sociali, economiche e religiose. Nega la visione di Hobbes e Machiavelli circa la natura ferina dell’uomo e abbraccia un’idea quasi puerile dell’uomo e della sua innocenza originaria.
Ma il selvaggio è mosso dalle pulsioni, dagli istinti, a partire dall’istinto di sopravvivenza, non è buono in natura, è crudo e brutale, come del resto è la vita. L’egoismo è una molla originaria e non sopraggiunta con la civiltà, e la generosità è solo un riflesso ulteriore o un’estensione degli istinti protettivi verso chi sentiamo appartenerci. Così le disuguaglianze sociali non sono solo il frutto di costrizioni sociali, dominazioni e sfruttamento, come pensava Rousseau; esistono già in natura perché gli uomini nascono diversi per sesso, forza, indole, intelligenza e fattezze. Genuino o ingenuo non sono sinonimi di indole buona e animo puro.
Il mito del buon selvaggio ribalta l’idea cristiana del peccato originale e l’idea laica del progresso che procedendo ci rende migliori. Ma ripercorre da un verso la nostalgia del paradiso originario, l’Eden perduto; e dall’altro s’intreccia col pensiero illuminista fondato sul primato della ragione contro l’oscurantismo della religione.
Il tema si comprende meglio partendo dal suo rovescio: la negazione del naturale è l’artificiale o il culturale, l’opposto della natura è la macchina o la civiltà, la tecnica o la storia, la modernità o la tradizione? La sua antitesi è l’egoismo che produce sopraffazione e dominio, o è la religione, con le sue falsità e costrizioni, a partire dal peccato originale? E il ritorno alla natura è una liberazione dell’uomo attraverso un umanesimo “eco-compatibile” o è liberazione dall’uomo e dunque dall’umanesimo e dalle sue costruzioni artificiali, fino a liberare “l’animale che mi porto dentro”?
Rousseau è il più importante teorico del “buon selvaggio”, questa figura che percorre come un’ombra la società del Settecento. Rousseau è prigioniero di quell’ambiguità incompatibile tra spirito romantico e spirito illuminista. Anzi, se vogliamo, indipendentemente dal rapporto con i Lumi, il romanticismo in sé è confusio, coincidentia oppositorum, è tutto e il contrario di tutto, assenza di limiti, eccesso, occasionalismo, nostalgia reazionaria e rivoluzione.
Nel mito del buon selvaggio, che sorge non a caso agli albori del capitalismo, la società del Settecento rivede i suoi canoni e cerca di stabilire un rapporto più verace e diretto con la natura a partire dal corpo, le sue pulsioni sessuali, i suoi richiami. Avverte di essersi troppo allontanato dagli elementi naturali, dalla terra, gli animali e le piante.
Il pensiero “selvatico” accompagnerà come un fratello nascosto la filosofia, l’arte e la letteratura: riemergerà in forme diverse, da Schopenhauer a Nietzsche, rispetto alla linea razionalista e storicista, idealista e scientista, oltre che nel naturalismo artistico e letterario, in una parabola che si potrebbe riassumere così: da Rousseau il pensatore a Rousseau il doganiere, pittore della natura esotica.
Per lungo tempo restò una linea d’ombra, una cultura alternativa, minoritaria rispetto ai due secoli dominati dal primato della storia e dal conflitto tra Progresso e Tradizione, tra Fabbrica e Altare (incluso l’altare della patria). Riemerse poi sull’onda della contestazione giovanile, in una nuova forma anarchica, permissiva, egualitaria ed ecologista. La linea verde s’intrecciò con la linea rossa, a volte divergendo, a volte convergendo. Il ritorno alla Natura restava un’utopia regressiva o una retrotopia, diremmo oggi, rispetto a chi sognava invece, il sol dell’Avvenire, il riscatto operaio e la Città futura. A volte ha deviato il suo percorso alla scoperta di erbe e fumi, fughe in mondi esotici o allucinati, raduni hippie e riscoperta della nuda vita.
E oggi che fine ha fatto il Buon Selvaggio? Dove abita o si nasconde? Il selvaggio oggi assume un duplice aspetto, endogeno ed esogeno. Il primo è il selvaggio di ritorno, come si dice dell’analfabeta di ritorno, ovvero la crescita di un tipo selvatico, neo-primitivo, nel pieno della società avanzata, che usa la tecnologia, ascolta musica, “beve” i video e segue i trend epocali, ma in una specie di regressione bestiale; vive di istinti e d’istanti, totalmente scollegato da ogni passato e futuro, da ogni cultura e tradizione, seguendo solo ciò che gli va di fare o ciò che “lo fa stare bene”. È’ ormai diffusa e non da oggi, questa tendenza selvatica, che nulla ha a che vedere con “l’omo salvatico” di cui scrivevano cent’anni fa Giovanni Papini e Domenico Giuliotti, che non era solo selvaggio ma colui che “si salva”, in lotta con la modernità. Il neo-primitivismo ebbe prima una connotazione artistica, poi indicò la tendenza neo-barbarica dell’uomo massa, descritta da Ortega y Gasset. Oggi il selvaggio è accessoriato, tecno-dotato, ma usa un linguaggio basic, ha modi rozzi e mente incolta, sconnessa, incivile che risponde a impulsi e riflessi condizionati e vive solo del momento.
Ma accanto al selvaggio endogeno o indigeno è cresciuto con gli anni anche il selvaggio esogeno o allogeno, venuto da lontano, magari sui barconi, in fuga da società povere e primitive. Se vogliamo, i flussi migratori sono il girone di ritorno, e la nemesi, della colonizzazione e dello schiavismo. Ridotta a razzismo ogni lettura critica del fenomeno migratorio, si è sviluppato in Occidente un nuovo mito del buon selvaggio applicato al migrante venuto dall’Africa o dai paesi arretrati: i malvagi siamo noi, lui è più vero, più genuino, naturaliter generoso e non ancora corrotto dalla civiltà. Così tornammo al selvaggio di partenza, il viaggio circolare è compiuto; fine della storia, in ogni senso.
(Introduzione alla rivista Quaderni di Critica e Cultura, numero dedicato a Viaggi, avventure e imprese quasi impossibili, dicembre).