I Ponti ricerca del Prof. Enrico Garofano
Davvero strano ed imperscrutabile il destino, che talora privilegia sconsideratamente ed oltre misura o avvolge beffardamente ed inesorabilmente nelle spire dell’oblio. Tutti, uomini, animali e cose. Anche le parole, tra le quali ci sono quelle che dovrebbero avere grande valenza ed importanza, il cui uso è però estremamente limitato o relativo, mentre ce ne sono altre che nella loro “veste” insignificante o modesta o hanno notevole risonanza e soprattutto immensa fortuna, al punto da vedersi usate ed “abusate” in ogni circostanza.
Chi avrebbe mai scommesso che, quando per la prima volta fu “ideata” e pronunziata, la parola “ponte” sarebbe stata baciata dalla fortuna ed avrebbe ricevuto il più lusinghiero dei successi.
Eppure questa parola in sé non presentava niente di grande, di eccelso, di elevato, in quella forma che ha avuto, fin dal momento in cui è nato il linguaggio, nonostante le sue origini lontane, nel tempo e nello spazio, tra popolazioni antichissime il cui solo nome suscita disorientamento, se non smarrimento: gli indoeuropei.
Erano, questi, popoli che parlavano le lingue arie ed europee antiche e che dimoravano in terre molto lontane, corrispondenti alle aree indoiraniche ed armene, ed in quelle più vicine, quali sono le fasce territoriali greche, baltiche, slave e germaniche.
“Penth”: fu questa la parola con cui fu battezzato la prima volta, a cui però si diede il senso di via, sentiero. Il suono non era tanto bello e non dovette piacere molto, se le generazioni successive ai suoi “creatori” colsero al volo l’occasione per trasformarla. Così, nella loro indole e nella loro cultura più elevata e dotta, gli antichi Indiani decisero di ribattezzarla “pánthas”, senza alterarne il significato, e di lasciarne le tracce nella loro letteratura sanscrita (che vale “elaborata e perfetta”).
Iranici ed Armeni furono contenti di questo nuovo nome e lo conservarono, anche perché se c’era una via, bisognava pure percorrerla per andare da qualche parte e “andare” o “partire” per loro, come già per gli Indiani, era “path”. Più avanti negli anni, volendo far qualcosa di nuovo, per essere ricordati nella storia, raccomandarono ai loro seguaci Persi (non “perduti” ma Persiani) di chiamare “pathan” o almeno “pathi”, la strada su cui avrebbero camminato e marciato. Ed i Persi, i progenitori degli allevatori di gatti raffinati e dei produttori delle pesche persiche, furono ossequienti alle raccomandazioni degli antenati e ne tramandarono le volontà.
La parola viaggiò, andò in giro fino a quando non fu conosciuta dai Greci, che l’adottarono nella forma “p?t??” (pátos) e nel senso di via battuta, calpestata, ma anche di passaggio da una parte ad un’altra, perché a loro piaceva camminare calcando i piedi o calpestando con i piedi il terreno (“pate??”, patéin, cioè calpestare, camminare, andare). Per questo loro modo di fare trovarono dei copioni nei Baltici e soprattutto negli Slavi, che nella forma “pati” riuscirono a conservare anche il significato degli antenati più antichi: via, cammino. I Greci però, rendendosi conto di non avere troppi spazi e neppure ampi confini per sviluppare la loro ideale rete stradale (al massimo potevano contare sulla necessità di effettuare qualche maratona, anche se non sempre se ne presentava l’occasione), decisero di voler essere originali, per i loro tempi. Si ricordarono di essere i lontani discendenti degli emigranti indoiranici, pensarono ai remoti favolosi luoghi d’origine dei loro trisbisavoli, presero coscienza di essere ormai i padroni del mare e coniarono il nuovo termine per indicare la loro strada, quella che avrebbe segnato il loro sviluppo e il futuro loro e dei loro discendenti: “p??t??” (póntos). In realtà non prestarono attenzione al fatto che la parola non era eccessivamente originale nella forma, anzi essa risentiva proprio tanto dei vecchi “penth” e “pánthas”. Tuttavia essi erano pienamente consapevoli che era senz’altro originale il senso che avevano dato alla parola: la distesa del mare, la strada piatta ed infinita sull’acqua, il sentiero pluridirezionale ed illimitato sopra l’elemento liquido per raggiungere qualsiasi meta. Furono talmente contenti di questa loro scelta, che adottarono per sempre il “p??t??” (póntos), quasi ad indicare il passaggio ideale e reale dalla madrepatria ad altre terre, vicine o lontane, comprese quelle adiacenti al mare di Elle (“????sp??t??”) e del Mar Nero o Ponto Eusino (il “?ó?t??”), fin da quando il loro più grande poeta, Omero, cantò nell’Iliade (21, 59), con un pleonasmo, il “p??t?? ?a?ó?” (distesa del mare).
Furono invece i discendenti più giovani delle popolazioni indoiraniche emigrate nelle fredde zone centrosettentrionali dell’Europa a mangiarsi, per fame o altro, qualche pezzo di parola antica: gli anglosassoni cominciarono a parlare di “pädh”, senza aggiungere altro, e non si spinsero oltre neppure per il significato, fermandosi a “sentiero”; pure quelli che parlarono l’antico alto tedesco dissero e scrissero stringatamente “phad” per indicare il sentiero. Neppure i loro discendenti diretti, i moderni inglesi e tedeschi, osarono o vollero fare di più (per rispetto degli antichi o per rigidità verbale), fermandosi, rispettivamente, a “path” ed a “Pfad”, sentiero. Laconicamente, senza aggiungere nulla di superfluo. Ed in barba alle innovazioni che dovrebbero portare le giovani generazioni, quelle a cui piace “rottamare” senza rompere (i ponti) col passato.
Dopo i Greci, ed a loro imitazione, vennero i Romani che subito coniarono il termine “pontem”, accusativo di “pons-ntis”, a cui diedero un nuovo e “costruttivo” significato: ponte, passerella, sistema di passaggio “aereo” su corsi d’acqua o su avvallamenti del terreno. Perché essi impararono presto come realizzare un sistema pratico per superare senza pericolo fiumi, torrenti e precipizi: la necessità aguzza l’ingegno, si dice, e così fu. I romani furono i più perfetti ideatori e costruttori (anche se furbamente si servirono di “specialisti” Etruschi) di vari tipi di ponti.
Li fecero di legno, come quello sul Tevere – il Pons Sublicius, da “sublica”, trave, sostegno, palafitta, con suff. aggettivale “-ius” -, e come quelli fatti costruire da Cesare sul Reno.
Li realizzarono su barche (o chiatte o zattere), come testimoniano alcuni autori antichi e le raffigurazioni presenti sui rilievi delle colonne di Traiano e di Marco Aurelio a Roma. Ne eres-sero in legno su pilastri di pietra, come quello sul Danubio ideato dal famoso architetto di Traiano, Apollodoro di Damasco, e raffigurato in rilievo sulla Colonna Traiana a Roma.
Ne costruirono soprattutto in pietra ed in muratura, ad archi, ad una o più luci, a seconda dell’ ampiezza dello spazio da coprire, a luci grandi e piccole con notevole gusto estetico (Ponte Milvio a Roma), a volte con nicchie ed edicole nei piloni o con statue sui pilastrini del parapetto (Ponte Elio a Roma), sempre rispettando la larghezza, mai superiore ai 7-8 metri, nonostante la lunghezza.
Le nuove generazioni e le nuove civiltà che sostituirono i romani ne imitarono progetti e tecnica costruttiva, limitandosi a sperimentare ed a constatare la necessità e la convenienza di possedere ponti levatoi e girevoli. Poi arrivarono i superuomini della civiltà contemporanea e cominciarono a pasticciare con materiale metallico, fino a quando non realizzarono opere stra-ordinarie in ferro e legno (Ponte Ferdinandeo sul Garigliano e Ponte Maria Cristina sul Calore) che fecero gridare al miracolo. E miracolo fu, da allora in poi, per i tanti ponti, viadotti, soprae-levate a tiranti, aggettanti, sostegni in ferro, acciaio e calcestruzzo, insieme, per attraversare senza pericolo ampi fiumi, specchi di mare, atolli, laghi, profondità vertiginose ed altro ancora.
Non restando altro da costruire, si è ideato un lungimirante progetto di gettare ponti sul modo di parlare, per attraversare facilmente le difficoltà espositive e rendere più agevole il per-corso linguistico. Così si è iniziato a parlare di ponti di comando e ponti di coperta, di ponti di manovra, di ponti di volo, di ponti di lancio, di ponti stradali, ferroviari ed aerei, di ponti denta-ri e di ponti d’officina. Perché intanto s’era esaurito il repertorio che prevedeva di gettare o far ponti d’oro, di bruciare o tagliare i ponti, davanti ad altri o dietro di sé, di tagliare i ponti con questo e con quell’altro, di far teste di ponte o peggio ancora. Per completare l’opera ormai dobbiamo affidarci, perché siamo impotenti e remissivi nelle loro mani, a quanti pontificano (come gli antichi Pontefici Romani) di leggi-ponte o di governi-ponte e proponendo una solu-zione ponte affidano il loro messaggio a tanti ponti-radio e ponti-televisivi, da cui siamo tutti sempre più ossessionati. E non abbiamo più, noi gente comune, né la possibilità di eliminare definitivamente questo benedetto ponte dal nostro vocabolario e soprattutto dal nostro sistema di parlare, discutere, vivere, né la capacità di creare un ponte tra la realtà e la fantasia che ci con-senta di “andare”, “passare” in un mondo più a misura d’uomo. Ci resta solo qualche piccolo ponte feriale per allontanarci dalle preoccupazioni quotidiane e ritemprarci dalle nostre fatiche.
Definizione di “Ponte”.
Se si cerca il significato di “Ponte”, su qualsiasi dizionario si può leggere che si tratta di un manufatto-struttura costruito con materiale diverso (corda, legno, pietra, calcestruzzo, cemento armato, ferro, acciaio) tramite il quale si consente ad una strada o via di comunicazione di superare un ostacolo, quale può essere un corso d’acqua, un avvallamento più o meno profondo del terreno, una via preesistente.
Più semplicemente si sono espressi i lessicografi latinisti di qualche secolo fa, quali Ambrogio Calepino ed Egidio Forcellini.
Calepino riferisce che “Pons,tis, Ponte, a Pendeo, quod veluti in aere pendeat. Et significat omne per quod super aquas transimus” (Ponte, dal verbo “Pendeo” -sto sospeso, sono penzoloni-, perché è come se penzolasse in aria. Indica qualsiasi cosa attraverso cui transitiamo sopra le acque).
Forcellini pure scrive che “Pons, pontis, omne id, quo super flumen, vel foveam, vel simile quid transimus. Alii ducunt a “pó???”, transitus, alii a pendeo” (Ponte, ogni struttura con cui passiamo sopra un fiume o sopra un baratro o qualcosa di simile. Alcuni lo fanno derivare da “pó???” (pòros), passaggio, altri da “pendeo”, sto sospeso).
Espressioni più comuni con la parola ponte
bruciare i ponti
(altre varianti: bruciarsi i ponti alle spalle- tagliare i ponti – tagliarsi i ponti alle spalle)
L’espressione, come è fin troppo evidente, risale al tempo in cui i ponti erano fatti di legno (tavolato in legno su struttura in legno o in muratura) o erano vere e proprie passerelle di legno (spesse assi di legno sostenute e ben assicurate a robuste corde di canapa). Appiccarvi il fuoco per distruggerli era fin troppo facile per le truppe in fuga, che così isolavano località di interesse strategico, impedivano ai nemici di raggiungerle, scoraggiavano eventuali tentativi di fuga da parte di disertori ed accrescevano il “furor belli” nei combattenti consapevoli di doversi prepararsi all’estremo sacrificio.
In senso figurato il modo di dire vale “abbandonare un luogo, una situazione o anche un sistema di vita senza aver più possibilità o volontà di ritornare su decisioni prese in piena consapevolezza”.
far ponti d’oro (altra variante: gettare ponti d’oro)
Una volta sarebbe stato oltremodo difficile, oltre che dispendioso, realizzare strutture pensili elevate con il prezioso metallo, per cui l’espressione va intesa solo in senso figurato. Il significato più evidente del modo di dire equivale ad “allettare qualcuno con proposte molto vantaggiose ed interessanti al fine di indurlo a passare dalla propria parte o a garantire servigi, favori, impegno, lavoro a chi gliene fa proposta”.
La proposta in genere è rivolta ad avversari o a persone poco gradite a cui si chiede di desistere dal fare determinate cose che potrebbero risultare controproducenti per la persona che inoltra la proposta, la quale non si esime dall’ “indorarla” di promesse, spesso impossibili da mantenere. È un po’ come far camminare su un ponte d’oro per raggiungere la compromettente e redditizia sponda dell’accordo).
fare da ponte
È un modo di dire rivolto ad un elemento (persona, cosa, ente o altro) che viene considerato o identificato come il più naturale o più adatto punto di collegamento tra altri elementi (persone, cose, enti o altro).
Quando si tratta di persona, questa non sempre è consapevole del suo ruolo in quanto viene “manovrata” dai soliti furbi che non smettono mai di dedicarsi al loro piacevole “vizietto” di utilizzare altri a loro insaputa.
fare il ponte
Si tratta di saper utilizzare a proprio vantaggio (per vacanze, feste ecc.) gli spazi lavorativi intermedi tra due festività. L’ espressione, in verità molto usata, va perciò bene per tutti, ingegneri, architetti, geometri, medici, funzionari, insegnanti, impiegati, imprenditori, ecc. Ma sembra che i più capaci a trarne profitto siano soprattutto studenti, abili ed avveduti costruttori di giorni di vacanze, e politici, bravi come nessuno ad utilizzare tutti gli appigli per fissarvi le “spallette” delle rampe aggettanti a scavalcare il pubblico interesse.
gettare un ponte
Si usa tale espressione quando si intende manifestare comprensione e quindi disponibilità nei confronti di qualcuno che pensa, agisce e si comporta in modo diverso, al fine di porre le basi salde per instaurare un rapporto stringere un legame da cui si aspetta qualcosa di positivo.
mettere in ponte
Equivale ad avviare una trattativa con qualcuno o ad intraprendere un’impresa (o qualcosa del genere) per raggiungere una meta importante o un obiettivo fondamentale per sé, sapendo di dover percorrere un sentiero che può risultare “sospeso” nel vuoto ma che è il solo che può portare dall’altra parte, là dove si intende pervenire.
tenere in ponte
Quando non si vuol prendere subito una decisione, risolvere in maniera sbrigativa un problema o quando si vuole valutare bene una determinata situazione prima di esprimere un parere o agire in via diretta e si tengono in sospeso delle iniziative che pur dovrebbero far pervenire a qualcosa, si ritiene opportuno frapporre degli indugi, avanzare delle remore, presentare ostacoli reali o immaginari, tutto ciò è compreso nell’espressione “tenere in ponte”, vale a dire in un punto intermedio tra il luogo di partenza e quello d’arrivo dal quale non si riesce ad uscire.
testa di ponte
Espressione che ha avuto tantissima fortuna nel gergo militare ad indicare varie cose: il tentativo di mettere uno dopo l’altro i pezzi necessari per montare un ponte che possa consentire alle truppe di raggiungere la sponda opposta di un corso d’acqua o di un burrone; le truppe inviate in avanscoperta con lo scopo di mantenere ad ogni costo una certa posizione in attesa dell’arrivo del resto del reparto militare o dell’esercito; gli agenti non facilmente individuabili inviati in territorio nemico a svolgere funzioni di osservatori o guastatori.
Da qui l’espressione è passata ad indicare gli individui che operano all’interno di una organizzazione e che devono fornire indicazioni necessarie per raggiungere un determinato obiettivo. Essa però indica anche le persone più capaci o influenti in grado di individuare gli elementi più opportuni per la realizzazione di un progetto. O anche la persona o l’ente più efficiente all’interno di una struttura economica che prevede il suo distaccamento in zona di operazione per fini commerciali o similari.
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