“I miei genitori in fuga e gli italiani massacrati per politica e razzismo”
L’ex assessore Predolin figlio di una coppia di dalmati. Da Zara a Milano, il racconto di un’odissea
Alberto Giannoni – Mer, 07/02/2018
Ideologia e autentico razzismo. «Razzismo allo stato puro». Roberto Predolin (ex capogruppo di An, assessore e presidente di municipalizzate) la spiega così quella storia di indicibili violenze che insanguinarono il fronte orientale fra la seconda guerra mondiale e il dopoguerra.
Una storia sottaciuta, la storia di un’autentica pulizia etnica che ha segnato anche la sua famiglia.
Predolin, dove inizia la vostra vicenda familiare?
«I miei genitori venivano da Zara, si sposarono giovanissimi sotto le bombe e partirono per il viaggio di nozze. La città fu bombardata 54 volte e rasa al suolo, il 90% della popolazione scappò. I pochi rimasti furono eliminati fisicamente. A Zara ci furono affogamenti e fucilazioni e quando le truppe slave risalirono l’Istria le foibe, storie come quella di Norma Cossetto. Tante storie simili, 15-16mila infoibati, tra cui molti sacerdoti che non credo fossero fascisti scatenati».
Cosa causò i massacri?
«Avevano in mano una ramazza etnica programmata a tavolino per eliminare ogni presenza italiana. Due plenipotenziari di Tito la raccontano nel loro diario di guerra, sfacciatamente».
Che ne fu dei suoi genitori?
«Girovagarono. Io sono nato a Pisa, dove c’era uno zio ufficiale di Marina e soprattutto il mare, che mio padre voleva che io vedessi appena nato. Abbiamo vissuto ad Asiago, poi a Castelletto Ticino grazie a un grosso industriale lombardo, Belfanti, che ci ospitò. Infine siamo arrivati a Milano, dove la comunità giuliano-dalmata aveva costruito un edificio davanti al Lido, la Domus Julia Dalmatica. Mia madre ha sempre vissuto lì. Io ricordo la scuola, il passaggio dalla mia infanzia da piccolo selvaggio a questa dimensione di Milano. Non fu facile, ci sentivamo un po’ diversi dagli altri bambini».
Eravate discriminati?
«No, Milano fu generosa e aperta. Non c’era antipatia. Noi eravamo italianissimi, anche troppo forse. Era un nostro problema. Comunque fummo molto più fortunati di quanti, altrove, crebbero fra caserme e scuole con alloggi segnati da pareti di cartone, in cui immancabilmente disegnavano il mare. Anche loro. Milano ci accolse in modo meraviglioso, poi una parte della gente cominciò a essere influenzata dall’ideologia, che ci voleva etichettare come fascisti che un po’ si erano meritati quanto era successo loro».
Ma c’erano fiori di socialisti e liberali fra le vittime.
«Sì e forse pagarono un prezzo più alto di quanti erano considerati fascisti. Solo perché erano anticomunisti».
Proprio come a Porzus.
«Ci sono tante piccole Porzus. A Trieste in 40 giorni, sotto le forze slave, sparirono 4mila persone. Casi incredibili. Come quello di Angelo Adam, ebreo, repubblicano, che finisce a Dachau, scappa, torna indietro e sparisce a Trieste. O Licurgo Olivi, socialista, fucilato a Gorizia. O Mario Blasich, che era paralitico e fu ucciso. Fecero una fine simile anche comunisti italiani che pensavano a una repubblica non-etnica, sogno condiviso da molti e frantumato dalle brigate comuniste di Tito. Gli italiani furono trattati come traditori».
Anche quelli di sinistra.
«Da Mestre partirono per Pola e Fiume 3mila operai comunisti dietro questa illusione della fratellanza col popolo slavo da aiutare nell’attività della nautica. Alla fine furono rispediti dopo essere stati imprigionati in condizioni durissime».
Furono massacri etnici o ideologici?
«Fu razzismo allo stato puro. Vasa Cubrilovic, consigliere di Tito, teorizzò un sistema che dai massacri e dalla deportazione degli albanesi arriva fino a Milosevic, accusato di stragi in Bosnia».
In Italia quando è durato l’ostracismo ideologico nei confronti degli esuli?
«A Milano fino a Gabriele Albertini, quando si sono aperte le porte delle istituzioni. Io avevo fatto parte dell’associazione Venezia-Giulia Dalmazia, poi c’era il circolo giuliano dalmata. C’era una sede in centro, vicino al palazzo di giustizia, ci aiutava Fulvio Bracco. Poi una sede più piccola in via Ariberto. Qualcuno ci stava ad ascoltare, Staiti di Cuddia per esempio, ma noi non volevamo politicizzarci. Comunque il centro se ne fregava, la sinistra ci detestava. Cambiò tutto col presidente Ciampi. E a Milano con Albertini e Moratti. E grazie a personaggi come Giorgio Forattini e Stefano Zecchi, autore di due libri sulla nostra storia. Pupi Avati scrisse che leggendo si era commosso. Con Pisapia, a parte un brodino di dieci minuti nel Giorno del ricordo, niente. Arrivava qualcuno del Comune, in genere non il sindaco, per un fervorino che non c’entrava niente e dava la colpa ai fascisti. Io per questo non partecipo neanche più».