C’ERA UNA VOLTA UN RE, ANZI UN DIO SERPENTE…
Gianni Agnelli è stato l’auto-biografiat della nazione. È stato l’unico sovrano riconosciuto, ossequiato e temuto, al di sopra della legge, per lunghi decenni. Il Regno d’Italia restò a Torino anche dopo la caduta della monarchia sabauda e l’avvento della repubblica cambiò solo la dinastia regnante.
A vent’anni dalla sua morte ricordiamo Gianni Agnelli come una tartaruga secolare, dal volto grinzoso che fuorusciva dal suo guscio chiamato in gergo automobilistico carrozzeria. Testuggine antica, dell’era rettiliana, che guardava con sprezzo elegante l’umanità, di cui avvertiva la profonda estraneità e l’irrimediabile subalternità. Un monarca legibus solutus, come si diceva dei regnanti assoluti, a cui erano consentite trasgressioni negate ai comuni mortali, a cui anzi non si poteva neanche accennare. Anche dal punto di vista giudiziario, ai tempi di Mani pulite, ogni leader o imprenditore in Italia “non poteva non sapere” quel che succedeva nella sua azienda o nel suo impero; lui, invece, pur essendo onnipotente e di stirpe quasi divina, aveva il potere di non sapere e di non essere contaminato dalle vicende umane troppo umane dei suoi dipendenti, fossero pure i più stretti collaboratori.
Nel centenario della sua nascita lasciate che io non ricordi con nostalgia la sua dominazione. Primo, perché resto dell’idea che la Fiat abbia più preso che dato all’Italia. Aveva dato tanto; figuriamoci quanto ha preso. Secondo, perché questo paese fu in parte disegnato a immagine e somiglianza della Fiat e dei suoi interessi. Terzo, perché il suo restò un capitalismo protetto, in cui – come un tempo si diceva – si socializzavano le perdite e si privatizzavano i profitti. Quarto, perché c’era un’aura d’intoccabilità su tutto quel che apparteneva al suo reame, dall’industria pesante, anche d’armi, al calcio, passando naturalmente per le auto, la Ferrari e tutto il resto. Quinto, perché l’editoria era ai suoi piedi e nessuno poteva veramente e seriamente osare qualcosa contro di lui, la sua azienda, la qualità delle sue auto, la loro sicurezza, e in generale sui metodi di potere. Quando fondai un settimanale nei primi anni novanta, un giornalista assai scafato, che curava le pagine economiche di un grande giornale, mi disse: attacca tutti, anche la mafia, ma lascia stare la Fiat e l’Avvocato.” Addirittura.
Perfino l’anticapitalismo, che negli anni settanta era molto diffuso almeno sul piano ideologico e morale in Italia, e attraversava tutta la sinistra, i sindacati, buona parte dei cattolici, i verdi, i “neofascisti” e le destre sociali, si faceva astratto e deferente davanti alla figura di Gianni Agnelli, di cui si avvertiva l’invulnerabilità, in grazia di un carisma immunitario.
Il potere della Fiat durò quasi un secolo, ma con l’Avvocato raggiunse il suo apogeo e s’impose come modello, stile, paradigma. Fu almeno per un trentennio sovrano incontrastato, anche quando cedette quote Fiat alla Libia del dittatore Gheddafi; le acquisizioni e le annessioni al regno agnelliano furono agevolate, senza contrasti, si spinsero ben al di là dell’industria automobilistica, con la benedizione dei salotti buoni, dei poteri politici e di Mediobanca. Il declino avvenne con la fine del Novecento e fu costellato di perdite, morti e sventure. La saga degli Agnelli somiglia un po’ a quella dei Kennedy: ma per i sovrani torinesi non ci furono attentati, solo disgrazie.
Ma al di là del ruolo imprenditoriale di Agnelli e della sua azienda, vorrei ricordare il ruolo politico e ideologico che ebbe in Italia, di cui ancora si scontano le conseguenze. Negli anni settanta Agnelli dette il regale consenso alla democrazia consociativa, sponsorizzò il “patto dei produttori” tra sindacati e imprese, legittimò il compromesso storico e l’intesa col Pci, a partire dall’ala “destra”, quella di Giorgio Amendola (e Giorgio Napolitano). Ne fu anzi uno dei garanti internazionali e in Confindustria. Politicamente Agnelli fu sempre governativo e i governi furono sempre agnellofili.
Parallelamente la sua espansione nell’editoria, i famosi giornaloni controllati direttamente o indirettamente, furono la principale fabbrica di riciclaggio del giornalismo impegnato di estrema sinistra, nell’ambito della stampa “borghese”: firme che provenivano da Lotta Continua e dal manifesto, da Potere Operaio e dalla sinistra radicale, oltre che dal Pci, diventavano le avanguardie della stampa agnelliana. Assumevano le direzioni dei giornali, diventavano le firme di spicco, avevano ruoli decisivi nell’editoria. Fiat & Martello, titolai una copertina di tanti anni fa. Larga parte della saldatura tra sinistra e capitale, tra salotti buoni e cortei di lotta, tra grande borghesia del nord e militanza di sinistra, avvenne all’ombra dell’impero Agnelli e dei suoi derivati. L’egemonia si estese ad altri ambiti, come l’università, e si avvalse di altri finanzieri progressisti (come Debenedetti e il principe Carlo Caracciolo, cognato di Re Gianni).
Fu allora che l’anticapitalismo sparì e fu sostituito dall’antifascismo, sparì la lotta di classe per riesumare la lotta al fascismo e alla reazione. E riemerse quella “ideologia piemontese”, incrocio di Gramsci e Gobetti, Pci e Partito d’Azione, laicismo e progressismo che sognava un’Italia sempre meno legata alla sua identità e alle sue matrici nazionali, cattoliche e sociali e sempre più al traino dell’Europa nordico-protestante. Un’Italia il cui peccato originale era la mancata Riforma e l’avvenuta Controriforma: da lì sarebbe derivato ogni ritardo storico e ogni male, fino al fascismo. Peccato che nel paese di Lutero e della Riforma sia sorto il nazismo…
La Fiat gianniagnelliana è stata dunque non solo il veicolo, il mezzo di trasporto di quell’Italia ma anche il supporto strutturale alla nascita di quel potere.
Detto questo, Gianni Agnelli fu uomo di classe, in ogni senso, e personaggio storico di grande fascino. Una specie di dio serpente.
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