Uno vale molti

Uno vale molti

Cervello_00-150x150È tutta questione di… mistero.

Nel mio precedente articolo ho parlato della speranza, cercando di definirla anche dal punto di vista antropologico-mentale.

Ora, vorrei fare con voi un ragionamento che potremmo definire logico-deduttivo, e dunque di tipo aristotelico. Noi occidentali sappiamo bene quanto dobbiamo al grande filosofo greco, specialmente quando ci riferiamo al metodo con il quale la nostra mente compie i ragionamenti, oppure i sillogismi. Sappiamo anche che il grande filosofo di fine ottocento, Immanuel Kant, ha mutuato dalla logica del grande pensatore greco il ruolo delle categorie mentali nella decodifica della realtà. Per fare un esempio, ogni volta che definiamo qualsiasi cosa che appartenga al mondo reale, utilizziamo le due importantissime categorie a priori, del tempo e dello spazio. Affermiamo che una cosa esiste in uno spazio e in un tempo.

Le categorie della mente e della cultura sono 14, con ulteriori sottocategorie. Risultano essere particolarmente importanti nell’indagine dell’antropologia culturale, poiché ad ogni categoria corrisponde, in una data cultura, una certa concezione, ad esempio, del tempo e dello spazio. Questo almeno nella tradizione scientifico-disciplinare del professore con il quale mi sono formato a Firenze, Gavino Musio.

Sulla base di queste generali premesse, sono due, secondo me, le categorie della logica aristotelica e kantiana che dobbiamo considerare importanti, in questo periodo dell’evoluzione della nostra specie: quella della “vita-morte“ e quella della “relazione“.

Con la prima, facciamo riferimento a qualsiasi forma di ragionamento logico, all’interno della quale attribuiamo significato, valenza etica e politica ai concetti di “vita“ e di “morte“. So che potrà sembrare strano il mio ulteriore ragionamento su questa categoria, ma è un punto di vista, del mio stile di vita che sperimento quotidianamente, grazie ad una serie di conquiste, che probabilmente derivano anche dall’età. Nella mia ottica, la vita è ciò che disturba la morte. Ossia, il nostro vero e più importante traguardo esistenziale è il superamento dell’esistenza in vita. Certo, può essere difficile da comprendere, e questo non ci esime dalla costante paura della morte stessa. Eppure, dal punto di vista della Fisica, è un ragionamento del tutto accettabile. Quando siamo in vita, per forza di cose e per necessità di sopravvivenza, rappresentiamo l’espressione di un cambiamento continuo, anche perché respiriamo. Inspiriamo ossigeno e lo trasformiamo con l’espirazione, inquinando l’ambiente. Ma, fortunatamente, la funzione clorofilliana ci salva. E non voglio aprire un discorso sulla nostra costante distruzione della flora del mondo. In quest’ottica, la morte rappresenta l’immobilità esistenziale, ossia la dimensione di perfezione assoluta: rimaniamo fermi, non respiriamo, non consumiamo energia, e ci ricomponiamo nella decomposizione. Meglio di così non potremmo sperare.

Eppure, e con una certa giustificazione, il nostro cervello, quando pensa la morte, si spaventa. Non potrebbe fare altrimenti, perché siamo programmati per pensare a dare un ordine consequenziale e cronologico a tutto quello che ci accade, e senza futuro non esiste presente.

Cosa ci rimane dunque da fare, se vogliamo continuare a pensare alla categoria “vita-morte“ in senso positivo? Forse, solo pensare che dopo questa situazione esistenziale, concreta e reale, di immobilità perfetta, possa seguire qualche cosa che ci rimette in gioco. Possiamo pensare all’avvento di una nuova relazione. In questo modo, il nostro cervello continua a esercitare la sua volontà, sotto forma di speranza, stabilendo appunto la “relazione” tra la Terra il Cielo.

Ecco perché, dal mio punto di vista, la persona che dimostra di avere Fede è semplicemente in grado di utilizzare la propria razionalità sotto forma di ragionevolezza esistenziale e antropologica.

In effetti, l’unica occasione che abbiamo per pensare ad una situazione di perfezione che raggiungiamo con la morte, è di ragionevolmente intuire l’ingresso in una nuova dimensione, che permetta al cervello di continuare a pensarsi attivo, ossia proiettato nel futuro.

Ecco, zio Covid-19 ci aiuta in tutto questo.

Secondo me.

 

 

alessandro_bertirotti3Alessandro Bertirotti si è diplomato in pianoforte presso il Conservatorio Statale di Musica di Pescara e laureato in Pedagogia presso l’Università degli Studi di Firenze. È docente di Psicologia per il Design all’Università degli Studi di Genova, Scuola Politecnica, Dipartimento di Scienze per l’Architettura ed è attualmente Visiting Professor di Anthropology of Mind presso l’Universidad Externado de Colombia, a Bogotà e presidente dell’International Philomates Association. È membro della Honorable Academia Mundial de Educación di Buenos Aires e membro del Comitato Scientifico di Idea Fondazione (IF) di Torino, che si occupa di Neuroscienze, arte e cognizione per lo sviluppo della persona. Ha fondato l’Antropologia della mente (www.bertirotti.info).