E con Siddharta scoprimmo l’Oriente

𝐄 𝐜𝐨𝐧 𝐒𝐢𝐝𝐝𝐡𝐚𝐫𝐭𝐚 𝐬𝐜𝐨𝐩𝐫𝐢𝐦𝐦𝐨 𝐥’𝐎𝐫𝐢𝐞𝐧𝐭𝐞
Anche l’eterno ha fatto il suo tempo, e Siddharta ora compie cent’anni.

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E con Siddharta scoprimmo l’Oriente

Anche l’eterno ha fatto il suo tempo, e Siddharta ora compie cent’anni. E’ un libro a lento rilascio, che ebbe grande successo mezzo secolo dopo, fino a diventare un fenomeno mondiale ed epocale. Siddharta fu riscoperto quando Hermann Hesse ebbe il Premio Nobel nel 1946. Ma esplose nei primi anni settanta, e accompagnò una generazione alla scoperta dell’Oriente; non dell’est sovietico, non dell’Asia cinese di Mao, ma dell’Oriente fuori dal tempo e dalla storia. In Italia Siddharta sbarcò nel ’45, pubblicato da Frassinelli ma il suo successo travolgente fu con Adelphi che lo ripubblicò nel 1973. Da allora fiumi di ragazzi scoprirono Hesse, l’Oriente, l’India.
Nel ’68 l’Occidente fu attraversato da una scossa elettrica chiamata contestazione globale ma quella rivolta giovanile ebbe sin dall’inizio due versanti: uno rivoluzionario, fino all’eversione, che credeva al “tutto è politica”, e sognava un cambiamento radicale della società occidentale; l’altro invece floreale, fumante, esotico, amante di lontananze, alla confusa ricerca di nuove forme spirituali, in fuga verso Oriente. Due mondi diversi ma avevano un punto in comune: la voglia di uscire dal paradigma occidentale, il capitalismo e il consumismo, il dominio dell’economia e dell’industria. Chi pensò di poter cambiare la storia dell’Occidente si dette all’estremismo rivoluzionario, alcuni alla violenza fino al terrorismo, per poi spostare le pretese rivoluzionarie su piani più personali, come i costumi, il lessico, la famiglia, la scuola, l’università, il rapporto con gli adulti. Dall’altra parte ci fu chi invece pensò di sottrarsi alla storia dell’Occidente e andare con la testa, con il cuore, e taluni con le gambe, in Oriente. Li aspettava Siddharta.
Quando Hermann Hesse, a 45 anni, consegnò all’editore Fischer la sua opera, l’accompagnò con un viatico che è il suo manifesto: “L’Oriente non è solo un luogo geografico, è anzitutto la patria della giovinezza delle anime”. Oriente, giovinezza, anime: era lì il triangolo del suo successo. Il bello è che Hesse, come il nostro Emilio Salgari, non era mai stato in India. Riuscì ad arrivare in Ceylon, l’odierno Sri Lanka, ma non raggiunse mai l’India di Siddharta; il mito non fu esperienza ma immaginazione, non fu vita ma racconto d’altri.
Da dove scaturiva Siddharta in Hesse? Da due eredità. Una familiare, perché suo nonno materno Hermann era uno studioso dell’Oriente, un indologo. L’altra eredità proveniva dai fondati della sua Germania. La scoperta dell’Oriente si deve soprattutto ad Arthur Schopenhauer. La generazione degli anni settanta si divise tra figli di Hegel e figli di Schopenhauer, due filosofi coevi ma antagonisti già nel loro tempo. Hegel calava Dio nella storia e nello Stato, e il pensiero nella dialettica, ispirò Marx e l’idealismo nostrano. Schopenhauer invece conduceva in Oriente, al Nirvana, al Velo di Maya, alla vita come illusione, riconoscendo i limiti della ragione occidentale. Poi Nietzsche fece il resto, soprattutto col suo Così parlò Zarathustra.
Confesso di non aver mai amato Siddharta e tantomeno il suo autore. Lessi Siddharta ma non ne fui impressionato; a diciott’anni preferivo Zarathustra. E poi, con gli anni, il mio Oriente fu quello di René Guénon e Ananda Coomaraswamy, della Dottrina del risveglio di Julius Evola, degli studi di Giuseppe Tucci, di Mircea Eliade, di Pio Filippani Ronconi, di Elémire Zolla. Non mi piaceva quell’Oriente ingenuo, didascalico, un po’ finto, di Hesse; e comunque preferivo il pensiero al racconto.
Ma Siddhartha rispondeva a due esigenze diffuse: dava una risposta più profonda, più alta, più radicale alla voglia di cambiamento innescata dal ’68, incrociando l’ala hippie e beat, poi gli arancioni, gli hare krishna, per citare esperienze tra loro diverse. E ricercava il senso della vita affidandosi a una visione ascetica e “religiosa” che non era più quella ormai avvertita come stantia e declinante della Chiesa e della cristianità, protestante o cattolica.
Siddharta andava incontro alla voglia di partire, all’ansia per la scoperta del lontano e all’irrequietezza di viaggiare, nella forma più alta del pellegrinaggio. Erano anche quelle, a loro modo, prove tecniche di globalizzazione e delocalizzazione, ma avevano un loro innegabile fascino. Siddharta riscopriva una parola chiave lasciata nei sommari polverosi di filosofia: spiritualità, e poi la ricerca dell’Assoluto, il cammino dell’interiorità, accompagnato da un nuovo individualismo senza individuo, per così dire. Perché era un cammino solitario per singoli ma la meta era l’estinzione dell’io e del suo habitat occidentale, dotato di tutti i comfort. Fosse solo per questo, Siddhartha ebbe un ruolo importante, decisivo per un paio di generazioni. Per Siddharta, l’acqua è più forte della roccia; la duttilità conta più della durezza, l’amore prevale sull’aggressività. L’irenismo occidentale, il pacifismo, l’ecologia, il ‘mettete dei fiori nei vostri cannoni’, tornavano in vesti orientali.
Siddharta capovolgeva l’ immagine dell’India e dell’Oriente che avevamo conosciuto nella letteratura coloniale, alla Rudyard Kipling, che vedeva quel mondo con gli occhi dell’uomo bianco occidentale. Ma anche il suo viaggio in Oriente era concepito, come lui stesso ammise, con lo sguardo di un occidentale che veste i panni dell’indiano. Per Hesse l’Europa era ormai declinante, e dunque per ritrovare la sua energia doveva tornare alle origini, in Asia. Ex Oriente lux, la luce sorgiva d’Oriente per risvegliare l’Occidente esausto. A un secolo dall’opera, e dopo mezzo secolo di seguaci, quel bisogno non è cessato, anzi…

Panorama (n.23)