Distruggere Taiwan
di Gordon G. Chang 10 febbraio 2022
Pezzo in lingua originale inglese: Destroying Taiwan
Traduzioni di Angelita La Spada
Il governante cinese Xi Jinping non si farà scoraggiare dalla prospettiva di perdere la TSMC [una società di semiconduttori] o, a dirla tutta, l’intera industria dei semiconduttori di Taiwan. Xi invaderà l’isola anche se dovrà farne una lastra radioattiva inabitabile per mille anni.
“La Cina voleva Taiwan molto prima che la TSMC producesse chip, e la vorrebbe anche se la TSMC non fosse mai esistita. (…) Vuole Taiwan perché, come la Germania nazista, è una potenza espansionista…”. – Michael Turton, editorialista, Taipei Times, 10 gennaio 2022.
Il regime cinese è fortemente contrario all’idea di subire perdite. (…) Pertanto, McKinney e Harris mancano totalmente l’obiettivo quando sostengono che una corsa agli armamenti con la Cina sarebbe controproducente. Xi sa che un’invasione dell’isola sarebbe impopolare fra la maggior parte dei cittadini cinesi se le loro figlie o i loro figli venissero uccisi o mutilati nel tentativo (…), e non ha intenzione di fare nulla che possa portare alla fine del governo del Partito Comunista.
Richard Fisher, un analista militare cinese dell’International Assessment and Strategy Center, dice al Gatestone che vi è la possibilità che gli Stati Uniti vincano tale competizione con la Cina. Fisher ha ragione. L’esercito cinese ha intrapreso una corsa agli armamenti non solo con gli Stati Uniti, ma con gran parte della regione, in particolare Giappone e Australia.
Mentre il Partito Comunista cinese attacca le democrazie, Washington non può consentire a Pechino di assorbirne nessuna, anche se non è la patria dei principali produttori di chip del mondo.
“Distruggere la democrazia di Taiwan è essenziale per dare al Partito Comunista cinese la licenza di distruggere tutte le altre democrazie”. – Richard Fisher al Gatestone, gennaio 2022.
Se l’America andasse in soccorso di Taiwan, non difenderebbe soltanto l’isola, ma difenderebbe se stessa.
Il governante cinese Xi Jinping non si farà scoraggiare dalla prospettiva di perdere la sua industria dei semiconduttori. Invaderà l’isola anche se dovrà farne una lastra radioattiva inabitabile per mille anni. (Fonte immagine: iStock)
Come sostiene un articolo pubblicato nelle pagine di Parameters, il trimestrale dell’US Army War College, l’America può salvare Taiwan dall’invasione cinese promettendo di contrastarla, o almeno di contrastare la sua capacità di produrre chip. In “Broken Nest: Deterring China from Invading Taiwan”, Jared McKinney della Air University e Peter Harris della Colorado State University affermano che Taipei e Washington dovrebbero rendere l’isola “indesiderabile”.
“Gli Stati Uniti e Taiwan dovrebbero elaborare piani per una strategia mirata della terra bruciata che renderebbe Taiwan non solo poco appetibile qualora fosse conquistata con la forza, ma anche molto costosa da mantenere”, scrivono nel documento più scaricato del 2021 pubblicato dall’US Army War College. “Questo potrebbe essere fatto in modo più efficace minacciando di distruggere gli impianti della Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, il più importante produttore di chip al mondo e il principale fornitore della Cina”.
McKinney e Harris spiegano il loro titolo citando un proverbio cinese: “Sotto un nido distrutto, come possono esserci delle uova intere?”
Gli americani progettano i chip più veloci del mondo, ma non ne producono nessuno.
Taiwan, però, sì. L’isola è di gran lunga il leader mondiale nella produzione di semiconduttori. Un’azienda, la TSMC, come è nota la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, produce su ordinazione più della metà dei chip del pianeta e circa il 90 per cento dei suoi processori avanzati. TSMC e Samsung Electronics sono le uniche due aziende in grado di produrre chip a 5 nanometri, i più avanzati al mondo.
“Oggi, se si controlla l’accesso ai microchip, si può controllare il mondo”, scrive Bob Anderson sul sito Federalist. Taiwan è talmente importante che la gente del posto afferma che la propria industria dei semiconduttori fornisce uno “scudo di silicio” contro un’invasione cinese.
La tesi dello scudo sostenuta dai taiwanesi o dagli americani è un pio desiderio. Sì, è vero, Pechino ha fallito in modo spettacolare nello sviluppo della propria industria dei semiconduttori ed è vero che la Cina è fortemente dipendente dai chip di Taiwan. Eppure, il governante cinese Xi Jinping non si farà scoraggiare dalla prospettiva di perdere la TSMC [una società di semiconduttori] o, a dirla tutta, l’intera industria dei semiconduttori di Taiwan. Xi invaderà l’isola anche se dovrà farne una lastra radioattiva inabitabile per mille anni.
All’inizio della sua presidenza, Xi ha basato la sua legittimità sull’occupazione di Taiwan. “Guardando al futuro, la questione dei disaccordi politici esistenti tra le due parti deve raggiungere una risoluzione finale, passo dopo passo, e questi problemi non possono essere trasmessi di generazione in generazione”, ha dichiarato Xi nell’ottobre 2013.
“La Cina voleva Taiwan molto prima che la TSMC producesse chip, e la vorrebbe anche se la TSMC non fosse mai esistita”, ha rilevato questo mese Michael Turton, che risiede da lungo tempo a Taiwan ed è editorialista del Taipei Times, in una replica al saggio Broken Nest. “[Pechino] Vuole Taiwan perché, come la Germania nazista, è una potenza espansionista guidata da ideologie razziste e da una storia razzista”.
Inoltre, McKinney e Harris si sbagliano su un altro punto fondamentale. Sostengono che sarebbe difficile frenare Xi con strategie di deterrenza convenzionali.
La coppia si sbaglia perché, tra le altre cose, il regime cinese è fortemente contrario all’idea di subire perdite. Xi sa che un’invasione dell’isola sarebbe impopolare tra la maggior parte dei cittadini cinesi se le loro figlie o i loro figli venissero uccisi o mutilati nel tentativo. A meno che non sia sottoposto a una coercizione estrema Xi non ha intenzione di fare nulla che possa portare alla fine del governo del Partito Comunista.
Pertanto, McKinney e Harris mancano totalmente l’obiettivo quando sostengono che una corsa al riarmo con la Cina sarebbe controproducente.
Richard Fisher, un analista militare cinese dell’International Assessment and Strategy Center, dice al Gatestone che vi è la possibilità che gli Stati Uniti vincano tale competizione con la Cina. Fisher ha ragione. L’esercito cinese ha intrapreso una corsa agli armamenti non solo con gli Stati Uniti, ma con gran parte della regione, in particolare Giappone e Australia.
Sebbene McKinney e Harris giungano a conclusioni sbagliate, hanno almeno il merito di aver affrontato una questione delicata. “Per essere chiari, non esiste la benché minima possibilità che Taiwan o gli Stati Uniti possano rispondere a un’invasione cinese senza imporre costi e rischi al popolo di Taiwan”, affermano nel sito web di Taiwan News. “Questa è una realtà inevitabile”.
Sì, lo è. Il popolo di Taiwan, scrivono McKinney e Harris, “deve iniziare a pensare all’impensabile”.
Inoltre, devono farlo anche gli americani. Cosa è ora inconcepibile per loro?
Che Taiwan sia nelle mani di Pechino. Da più di un secolo, l’America traccia il suo perimetro di difesa occidentale al largo delle coste cinesi e Taiwan si trova proprio nel bel mezzo di quel punto critico, dove si incontrano il Mar Cinese Meridionale e il Mar Cinese Orientale. Taiwan protegge anche il fianco meridionale del Giappone, l’alleato “cardine” dell’America in Asia orientale.
Inoltre, mentre il Partito Comunista Cinese attacca le democrazie, Washington non può consentire a Pechino di assorbirne nessuna, anche se non è la patria dei principali produttori di chip del mondo.
“Distruggere la democrazia di Taiwan è essenziale per dare al Partito Comunista cinese la licenza di distruggere tutte le altre democrazie”, ha sottolineato Fisher. “Distruggere Taiwan è il primo passo, ma quello più necessario verso l’egemonia”.
Se l’America andasse in soccorso di Taiwan, non difenderebbe soltanto l’isola, ma difenderebbe se stessa.
Gordon G. Chang è l’autore di “The Coming Collapse of China”, è Distinguished Senior Fellow presso il Gatestone Institute e membro del suo comitato consultivo.