Cos’è oggi la Tradizione?

𝐂𝐨𝐬’𝐞̀ 𝐨𝐠𝐠𝐢 𝐥𝐚 𝐓𝐫𝐚𝐝𝐢𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞?
Intervista a cura di Danilo Breschi per Il Pensiero Storico

 

Cos’è oggi la Tradizione?

a cura di Danilo Breschi (numero speciale dedicato a Tradizione/i de Il pensiero storico, rivista internazionale di storia delle idee)

Secondo Lei, cosa si deve intendere in generale e in astratto per “tradizione”?

In generale, tradizione è senso della continuità, un’eredità tramandata e da tramandare. Comporta dunque un rapporto fecondo non solo col passato ma anche col futuro. La tradizione non è il culto del passato ma il senso della continuità; e rispetto al passato seleziona ciò che è morto da ciò che vive. È implicito nella tradizione con l’idea di trasmissione, il passaggio di testimone di generazione in generazione, di padre in figlio, di maestro in allievo, e via dicendo. Scrivendo anni fa un elogio della tradizione, lo intitolai proprio Di padre in figlio (Laterza, 2001). Sul piano storico, la tradizione è la nobiltà dell’esperienza, la gioia durevole delle cose, la fedeltà, le consuetudini rassicuranti e il ritorno.

Sul piano dei principi la Tradizione è il divenire dell’Essere, ovvero il movimento verso un centro e un’origine. Non è puro divenire, perché nel suo mutare c’è un principio d’immutabilità; e non è solo essere, perché comporta sempre un tradere, un fluire e non solo una persistenza. La tradizione si nutre di rito e di miti, di simboli e di liturgie.

In entrambi i casi si può definire la tradizione come una connessione verticale, in senso storico con le generazioni passate e future, in senso metastorico con la trascendenza; la tradizione è l’anello che lega il naturale al soprannaturale.

A suo avviso, è più corretto parlare di “tradizioni” al plurale, e, nel caso, quale sarebbe il criterio discriminante: la religione? La nazionalità, ossia l’appartenenza ad un’area geografica e ad un’epoca storica nelle quali un gruppo di esseri umani nasce, cresce e si sviluppa? Tante tradizioni quante sono le religioni? Tante tradizioni quante le nazionalità ancora presenti e persistenti? Oppure esistono altri criteri?

No, le tradizioni sono le molteplici forme storiche, religiose e civili in cui si manifesta, è il calendario delle diverse configurazioni. Tradizioni che durano, ma anche nascono e muoiono, s’inventano e decadono: quel che non decade è l’idea stessa di Tradizione, che è un principio metastorico. Oltre le diverse tradizioni c’è infatti l’idea di Tradizione, il principio, che per distinguere dalle tradizioni preferisco scrivere in maiuscolo, per distinguere l’archetipo dalle molteplici rappresentazioni. Le tradizioni possono essere civili e religiose, nazionali, locali e sovranazionali ma possono riguardare anche ambiti minori, collaterali, marginali. Dalle tradizioni gastronomiche a quelle sportive, in un arco assai vasto. Ci sono le tradizioni popolari e le tradizioni culturali. Tradizione per molti versi coincide con Cultura e con Civiltà, laddove la cultura è punto di incontro tra culto e coltivazione, le due attività che ci collegano al cielo e alla terra, ci nutrono di senso e di cibo. Tutti i rivoli delle tradizioni confluiscono infine nel gran fiume della Tradizione. La molteplicità delle sue forme e delle sue manifestazioni, così come i suoi ambiti e le sue diverse aspettative, sono fenomeni, mentre la Tradizione è per così dire, kantianamente, il noumeno.

È possibile parlare ancora oggi di “tradizione” in Europa dopo almeno cinque secoli, se non più, di dispiegamento di quel processo di messa in discussione, se non autentica contestazione radicale, della tradizione che si è soliti chiamare “modernità”? E, se sì, in quale misura, in quali ambiti?

Con la modernità si è capovolto il primato della durata rispetto a quello della novità, e si è rovesciato anche il rapporto di valore tra l’antico e il nuovo. La modernità è il primato di ciò che viene dopo, in ultimo; ma è anche il primato del mutamento sulla persistenza. Ad accelerare il processo è stata però la secolarizzazione e dunque il primato della storia sull’eternità; non ci sono piani ulteriori o superiori, tutto è giocato nel tempo, dentro la storia, senza interventi di entità metafisiche come il Destino o la Provvidenza. La modernità intesa non come fatto ma assunta a valore è chiaramente antitetica alla tradizione.

Il progresso, invece, non è in antitesi alla tradizione, perché un vero e sano progresso regge su una tradizione, o come direbbe Gioberti, “rampolla” da una tradizione; e anche la facoltà dei moderni di vedere più lontano degli antichi poggia sull’idea che siamo “ nani sulle spalle di giganti”, come diceva Bernardo di Chartres. Il progresso può essere dunque concepito come emancipazione dalla tradizione, come ha prevalso nella modernità e ancor più dall’illuminismo in poi; ma il progresso può essere inteso come figlio della tradizione, come si potrebbe dedurre, per esempio, dallo storicismo di Vico. Ma lo sradicamento e l’assenza di orizzonti, il nichilismo e la deriva cinica del nostro tempo inducono a ripensare all’altra via, ossia a ripensare attivamente all’idea di Tradizione come guida, orientamento, capacità di annodare il passato al futuro tramite il presente e la visione orizzontale della vita a una visione verticale.

Guardando fuori dall’Europa, quale ragionamento si sente di poter svolgere in merito al tema della “tradizione”? La globalizzazione, intesa qui come estensione all’intero pianeta della modernizzazione di tipo occidentale, ha cancellato, o sta cancellando, le tradizioni dei popoli extra-europei? Oppure, a suo avviso, occorre operare dei distinguo ben netti tra le diverse regioni del mondo?

La globalizzazione, intesa come l’espansione mondiale della tecnica e della finanza, a spese della politica e della cultura (ossia delle differenze culturali e naturali, civili e religiose) si pone come un grandioso processo di sradicamento e di rimozione, direi quasi di cancel culture a livello mondiale, che prelude all’uniformità planetaria; non ci sono più limiti e confini, altri tempi e altri luoghi ma tutto è risolto in una sorta di infinito presente globale. Di fronte a questa tendenza che sta corrompendo e poi distruggendo anche le tradizioni dei popoli extraeuropei, o innescando processi reattivi che sfociano nel fanatismo e nell’integralismo, è necessario ripensare alla Tradizione e alle tradizioni. Ma non come un principio di negazione della globalizzazione, o solo di freno; ma come un principio di compensazione e dunque di equilibrio. Abbiamo bisogno di bilanciare la spinta radicale verso l’uniformità planetaria e lo spaesamento universale attraverso la tradizione e i suoi riferimenti religiosi, civili, territoriali e famigliari. Il primo argine da opporre alla globalizzazione è la benefica e irrinunciabile funzione delle differenze, sia geopolitiche tra aree e popoli, sia a livello sociale e interpersonale. La varietà del reale opposta alla variabilità di uomini e cose, ridotte a mutanti destinati poi all’uniformità, sotto una Cappa che opprime, sorveglia e conforma. Il principio della differenza come sale del mondo unito al valore della tradizione come principio di compensazione può costituire l’argine vitale e spirituale rispetto al vitalismo disperato, nutrito dalla pulsione di morte, che pervade la società contemporanea.