Come nasce la collaborazione?
È tutta questione di… fiducia.
La ricerca del cibo è stata e continua ad essere fonte evolutiva importante, per noi, come per tutti gli esseri viventi. Proprio in riferimento a ciò, è verosimile pensare che i primi umani avessero bisogno di nuove opzioni.
Una poteva certamente essere quella di nutrirsi con carcasse di bestie uccise da altri animali, ma poi, come sostiene l’antropologa Mary C. Stiner, dell’Università dell’Arizona, alcuni tra i primi umani (forse l’Homo heidelbergensis, circa 400.000 anni fa) iniziarono a ottenere più cibo attraverso una collaborazione attiva. Con essa, gli individui hanno sviluppato obiettivi comuni, lavorando in gruppi nella caccia e nella raccolta.
È assai probabile, dunque, che questa collaborazione si sia trasformata in obbligo (sia cioè diventata coercitiva), perché essenziale alla sopravvivenza. Così, i nostri antenati si evolvono diventando interdipendenti, in modi immediati e imprescindibili, per ottenere il sostentamento quotidiano. In questo tipo di collaborazione, scegliere il compagno, oppure la compagna, giusto/a è dunque essenziale, per la ricerca di cibo.
Tutti gli individui incapaci di collaborare, tanto a livello cognitivo (quando fossero stati incapaci di comprendere gli obiettivi comuni o di comunicare con gli altri in modo efficiente), non venivano scelti come compagni, e rimanevano senza cibo. Nello stesso modo, anche gli individui socialmente (o moralmente) poco collaborativi nelle interazioni con gli altri (come, per esempio, coloro che cercavano di accaparrarsi tutto il bottino) erano lasciati da parte. Non avevano speranze.
In questo modo, è probabile che la selezione abbia individuato i soggetti più competenti, motivati ed efficaci nella collaborazione. I primi individui umani, selezionati socialmente a favore della ricerca collaborativa di cibo, tramite la scelta dei compagni giusti a questo scopo, sviluppano così nuove strategie di relazione interpersonale. Nasce in loro la motivazione a cooperare e collaborare, che li spinge a lavorare insieme, per raggiungere obiettivi comuni, provando simpatia; nello stesso tempo, nasce il desiderio di aiutare i compagni già acquisiti o potenziali.
In effetti, qualora la vita di un individuo fosse dipesa dal compagno, per avere successo nella ricerca di cibo, avrebbe avuto senso aiutarlo ogni volta che fosse stato necessario. Tutto ciò assicurava all’aiutante che il compagno scelto sarebbe stato pronto e disponibile per le prossime uscite di caccia.
Inoltre, la sopravvivenza dei singoli dipendeva da quanto gli altri li avrebbero considerati compagni competenti e motivati alla collaborazione, nasceva così in tutti i membri del gruppo la preoccupazione dell’immagine sociale di sé. Diventava importante essere informati circa la percezione altrui, perché da questa percezione dipendeva la reciprocità nell’aiuto. In effetti, anche dalle ricerche recenti emerge quanto i bambini piccoli si preoccupino di ciò che gli altri pensano di loro, mentre, a quanto pare, gli scimpanzé non se ne preoccupano affatto.
Queste considerazioni sono, ovviamente, frutto di congetture, perché non abbiamo nessuna prova concreta, né fossile, che le cose siano andate in questo modo. Possiamo solo basarci sullo studio psicologico e cognitivo degli atteggiamenti infantili, quando i bambini si trovano ad interagire in gruppo.
A seguito di come questi ultimi sviluppano atteggiamenti collaborativi durante le loro interazioni sociali, è ipotizzabile pensare che sia accaduto altrettanto nello sviluppo della nostra specie.
I primi esseri umani, coinvolti in operazioni collaborative per la ricerca di cibo, possono aver sviluppato nuove forme di logica cooperativa, con la quale considerare gli altri individui compagni meritevoli e affidabili. Non si tratta, dunque, di sviluppare soltanto
una simpatia, ma di mettere a punto un sentimento di equità, basato sulla comprensione dell’equivalenza tra sé e gli altri.
In questo modo, si sviluppa l’assunzione di comportamenti di ruolo utili alla collaborazione, grazie ai quali l’obiettivo si raggiunge più facilmente e in minor tempo. Senza contare che, oltre a tutto questo, quando due individui collaborano ripetutamente si sviluppa una comprensione vicendevole, una sorta di minimo denominatore cognitivo che definisce il modo ideale in cui ciascuno deve svolgere il proprio ruolo, in funzione del successo condiviso.
Alessandro Bertirotti si è diplomato in pianoforte presso il Conservatorio Statale di Musica di Pescara e laureato in Pedagogia presso l’Università degli Studi di Firenze. È docente di Psicologia per il Design all’Università degli Studi di Genova, Scuola Politecnica, Dipartimento di Scienze per l’Architettura ed è attualmente Visiting Professor di Anthropology of Mind presso l’Universidad Externado de Colombia, a Bogotà e presidente dell’International Philomates Association. È membro della Honorable Academia Mundial de Educación di Buenos Aires e membro del Comitato Scientifico di Idea Fondazione (IF) di Torino, che si occupa di Neuroscienze, arte e cognizione per lo sviluppo della persona. Ha fondato l’Antropologia della mente (www.bertirotti.info).