Celebri briganti e l’impenetrabile Bosco Pianelle

 

IL BOSCO PIANELLE NELLA STORIA DEL BRIGANTAGGIO

II più celebri briganti della Puglia meridionale elessero proprio l’impenetrabile Bosco Pianelle, con le grotte che si trovano nel suo contesto, a loro rifugio. Il brigantaggio ha costituito nel corso dei secoli un fenomeno di eversione sociale, endemico nel territorio di Martina, come per altre aree del Mezzogiorno. Esso assunse un carattere peculiare, sia da un punto di vista sociale, sia da quello della pericolosità negli anni successivi all’Unità d’Italia (1861), indicati dagli storici del fenomeno come gli anni del Grande Brigantaggio.

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Con il plebiscito del 21 ottobre 1860 il Regno delle Due Sicilie e il potere di Francesco II di Borbone cessavano di esistere ma gli avvenimenti successivi al processo di unificazione svelarono i reali intenti dei Piemontesi, che si comportarono come conquistatori. Il nuovo stato di cose piaceva però ai proprietari terrieri, i quali, pur intuendo che il nuovo regime avrebbe inevitabilmente attuato un inasprimento fiscale, si resero conto che mai si sarebbe giunti a una vera ridistribuzione delle terre demaniali, da tempo ormai escluse dagli usi consuetudinari da parte delle popolazioni. Nel mese di giugno del 1861 scoppiarono sommosse aventi per movente proprio la restituzione e la suddivisione dei demani, insieme ad altre rivendicazioni. I contadini poveri volevano, inoltre, le terre degli enti ecclesiastici, incamerate con gli altri beni dallo Stato, e chiedevano che si ponesse un freno al predominio dei galantuomini (ceto egemone agrario-professionale), restii ad ogni innovazione e sfruttatori dell’ignoranza delle classi inferiori. Un altro fattore di disordine si aggiunse nel dicembre dello stesso anno con l’istituzione della leva obbligatoria, che riguardava anche i giovani del già disciolto esercito borbonico. Questo fatto causò episodi di ribellione e molti dei coscritti si diedero alla macchia, unendosi alle bande di briganti, già formatesi qua e là nei mesi precedenti, eccitati anche dal proclama di Francesco II che indicava lo straniero come la causa della rovina del regno. La situazione economica generale era, inoltre, di estrema precarietà: aboliti i dazi doganali, la delicata rete imprenditoriale meridionale, che si difendeva dalla ben più agguerrita concorrenza delle merci straniere, proprio grazie a quel regime di protezione, collassò, creando disoccupazione e miseria. In questo crogiolo di disagio, di delusione e di rabbia malcelata, la risposta di molti esponenti di un popolo affamato e vilipeso fu il brigantaggio, che per molti versi fu una vera e propria guerra dei “cafoni” contro i signori e i loro protettori, i Piemontesi. Il brigantaggio post-unitario, quindi, non fu solo un fenomeno di ordine pubblico ma un complesso fenomeno economico, politico e sociale. Cavour e Vittorio Emanuele divennero per il popolino meridionale dei “settari diabolici”, mentre i nuovi eroi erano i briganti Crocco, il Sergente Romano, Pizzichicchio, Laveneziana, Ninco Nanco, Coppolone, Nenna Nenna e molti altri ancora. Il 14 febbraio 1861 Francesco II abbandonò la fortezza di Gaeta e in molti paesi della Puglia, tra i quali anche a Martina, sorsero vari “comitati borbonici”, formati da gente fedele al re in fuga, del quale si auguravano il ritorno. Nel luglio del 1861 ebbe luogo l’insurrezione borbonica di Gioia del Colle, guidata dal Sergente Romano. La sua carriera di brigante proseguì nelle campagne e nei boschi fra Martina, Massafra, Acquaviva, Fasano, Monopoli, Putignano e Noci; luogo di concentramento dei suoi seguaci fu il Bosco Pianelle. Amici dei briganti dovettero diventare i massari, i quali, volenti o nolenti, furono informatori, fornitori di viveri e di ospitalità, circostanza, quest’ultima, che spesso si tingeva di rosa, con appassionate storie d’amore tra briganti e donne delle famiglie ospitanti. Il 25 ottobre 1862 ebbe luogo un importante scontro tra i briganti del Sergente Romano e le forze armate, terminato con la disfatta dei briganti, datisi alla fuga. Il 1° dicembre di quello stesso anno i briganti, riorganizzatisi in 170, uscirono nuovamente allo scoperto e giunsero alla masseria Monaci di San Domenico, dove piombò il 10° Reggimento di Fanteria. Nel cruento scontro rimasero uccisi molti briganti e alcuni noti capibanda; gli scampati tornarono ai propri paesi o alle Pianelle, dove avvenne lo scioglimento della banda per dar luogo a un ridimensionamento delle azioni. L’eredità del Romano nel tarantino fu raccolta da Cosimo Mazzeo, detto Pizzichicchio, nativo di San Marzano, che riuscì a coordinare i resti allo sbando dei gruppetti sfuggiti allo scontro di masseria Monaci e a radunare molti altri briganti. Di questo personaggio si ricordano alcuni omicidi particolarmente odiosi: padre Nicola Vinci, un sacerdote che da Massafra si recava alla masseria Vallenza; il fratello di Giovanni Pellegrini, detto Taccone; lo speziale (farmacista) Francesco Paolo Piccoli, che fu massacrato barbaramente. Le forze di pubblica sicurezza, soprattutto la milizia civica, detta “Guardia Nazionale” si dimostrarono altrettanto crudeli. Quando i rastrellamenti condotti nelle campagne portavano all’uccisione di qualche brigante (o presunto tale) i cadaveri venivano caricati su asini e portati a Martina, dove, dopo un lugubre corteo nella via del Ringo, lungo il rione San Vito e la piazza di San Francesco, venivano buttati in un burrone che tuttora viene chiamato in dialetto “u munnezzere” (l’immondezzaio). La stessa sorte toccava ai briganti catturati vivi, i quali venivano in pochi minuti giudicati nel Palazzo Ducale e portati in piazza Sant’Antonio, nell’ampio largo occupato oggi dal teatro Verdi, dove erano fucilati e buttati nell’immondezzaio. Ad alimentare le fila dei briganti provvedeva il diffuso fenomeno della renitenza alla odiosa leva, divenuta obbligatoria, che allontanava per anni i giovani dai lavori della campagna: nella chiamata del 1862 a Martina, per esempio, di 46 iscritti alla leva se ne presentarono solo la metà, gli altri preferirono darsi alla macchia. Né valse l’ordine d’arresto dei padri dei soldati renitenti e, in loro mancanza, dei fratelli maggiori o delle madri. L’azione devastatrice continuò: furono smantellate masserie, bruciati i raccolti, derubate e uccise persone, mentre dovunque si parlava del ritorno imminente di Francesco II. Le bande erano ormai organizzate come veri e propri eserciti, con sergenti, caporali, trombettieri ed esploratori; la loro divisa prevedeva come distintivo una coccarda rosa al cappello. Nei primi mesi del 1863 la situazione si aggravò particolarmente, fra razzie, arresti e fucilazioni susseguitisi senza sosta, finché il sotto-prefetto di Taranto, Giacomo Serpini, approntò un piano sistematico di ricognizione dei luoghi, affidato ai Carabinieri, alle Guardie Nazionali e a uno squadrone di Cavalleggeri, la vera arma vincente nella guerra al brigantaggio. Nel corso di una di queste operazioni (giugno 1863) la banda di Pizzichicchio fu intercettata e costretta a riparare presso la masseria Belmonte, a sud-est di Crispiano e in quel pianoro l’agile cavalleria prima attaccò, poi finse una ritirata e, subito dopo, tornò alla carica contro le schiere dei briganti. Morti, feriti e semplici prigionieri furono portati a Taranto, ammassati su un lungo corteo di carri; giunti nei pressi del cimitero, i sopravvissuti furono anch’essi uccisi. Il 25 agosto del 1863 la “Legge Pica” decretò il successo della lotta contro il brigantaggio, che però poté dirsi del tutto eradicato solo con l’estate del 1864, fatta eccezione per qualche atto vandalico compiuto da malfattori isolati.

fonte

da: http://www.italiainrete.net/parcodellepianelle/brigantaggio.htm

Posted by altaterradilavoro on Dic 4, 2022